Sussidiarietà dell’azione ex art. 2041 c.c. e arricchimento “indiretto”

Corte di Cassazione, sez. I, 2 marzo 2021, n. 5665

In tema di forniture e servizi prestati in favore degli enti locali senza l’osservanza del procedimento contabile, il contraente fornitore non è legittimato a proporre l’azione diretta di indebito arricchimento verso l’ente pubblico per difetto del requisito della sussidiarietà (stante la proponibilità dell’azione contrattuale verso l’amministratore), ma è legittimato ad esercitare in via surrogatoria l’azione ex art. 2041 c.c. contro l’ente pubblico che compete all’amministratore suo debitore, anche nel caso in cui non si tratti di lavori di somma urgenza.

Corte di Cassazione, sez. III, 22 ottobre 2021, n. 29672

n ipotesi di arricchimento c.d. “indiretto”, l’azione ex art. 2041 c.c. è esperibile soltanto contro il terzo che abbia conseguito l’indebita locupletazione nei confronti dell’istante in forza di rapporto gratuito (ovvero di fatto) con il soggetto obbligato verso il depauperato, resosi insolvente nei riguardi di quest’ultimo.

Le sentenze in rassegna si occupano di questioni piuttosto frequenti nella pratica e che costituiscono tipici esempi di arricchimento ingiustificato. I provvedimenti si segnalano perché affrontano due profili rilevanti e consentono perciò di fare il punto sui seguenti argomenti: da un lato, l’esperibilità dell’azione di arricchimento indebito nei confronti di un ente pubblico, nel caso particolare in cui il servizio viene affidato a un’impresa in violazione delle procedure in materia di conferimento degli incarichi; dall’altro, la locupletazione indirettamente conseguita da un terzo, che approfitta di un rapporto a titolo oneroso intercorrente tra il depauperato e il suo debitore.

La prima sentenza [Cass., sez. I, 2 marzo 2021, n. 5665]  si pronuncia, tra le altre cose, sulla domanda ex art. 2041 c.c. proposta da una società nei confronti di un comune a favore del quale ha prestato il servizio di illuminazione pubblica. Scaduto il contratto, un funzionario comunale incarica informalmente la società di proseguire la prestazione del servizio. Non essendo stata pagata per le prestazioni effettuate dopo la scadenza del contratto, la società si rivolge al tribunale del luogo e domanda, in via principale, i) la condanna dell’amministrazione alla corresponsione del dovuto a titolo di corrispettivo contrattuale; in subordine, ii) il risarcimento del danno per responsabilità extracontrattuale; in ulteriore subordine, iii) un indennizzo ex art. 2041 c.c.; in via ancora più subordinata, iv) la condanna in via diretta del funzionario in virtù del rapporto obbligatorio costituitosi con lui ai sensi dell’art. 23 del d.l. 66/1989 ; e, infine, v) la condanna del comune al pagamento in via surrogatoria, essendo detto funzionario inerte di fronte alle richieste e diffide rivoltegli dalla società e non possedendo beni idonei a soddisfare l’ingente credito. La vicenda ha esiti alterni nei primi due gradi di giudizio: il tribunale reputa fondata l’azione surrogatoria di cui al punto v) e condanna il comune a pagare l’indennizzo ex art. 2041 c.c.; la Corte d’Appello, diversamente, rigetta le domande della società verso l’amministrazione, tanto in via surrogatoria quanto in via diretta sempre ex art. 2041 c.c., ma comunque dichiara la costituzione del rapporto obbligatorio (diretto) tra il funzionario e l’impresa. Il caso approda in Cassazione su iniziativa di quest’ultima, che si duole della violazione e falsa applicazione della normativa in materia di responsabilità diretta del funzionario che non si attiene alle procedure ad evidenza pubblica.

Prima di soffermarsi sulle ragioni che hanno condotto la Corte ad accogliere il ricorso, è bene inquadrare la questione di diritto sottesa alla vicenda in analisi: siccome l’azione di ingiustificato arricchimento è sussidiaria (art. 2042 c.c.), al privato non è consentito esperirla contro l’amministrazione, in quanto egli può sempre rivolgersi nei confronti del dipendente pubblico (direttamente responsabile) che ha reso possibili il servizio o la fornitura . La costituzione del rapporto ex art. 191, c. 4, d.lgs. 267/2000 determina infatti una scissione ope legis del rapporto d’immedesimazione organica tra l’agente e l’amministrazione d’appartenenza, con la conseguenza che quest’ultima diviene del tutto estranea all’impegno di spesa . In passato, la previsione dell’art. 23 del d.l. 66/1989, poi confluita nel decreto appena citato, era stata inizialmente sospettata d’incostituzionalità in ragione della sua (apparente) irragionevolezza: essa, si affermava, costituisce uno «scudo» per l’amministrazione pubblica, la quale si avvantaggia dell’arricchimento, ma poi non può essere evocata in giudizio dall’impoverito, dovendo quest’ultimo rivolgersi in prima battuta ad altro soggetto, la cui solvibilità è di gran lunga inferiore – se non persino nulla – rispetto a quella dell’amministrazione. I dubbi di compatibilità con il dettato costituzionale sono stati però superati dal Giudice delle leggi  oramai da qualche anno, mediante il ricorso a un istituto eminentemente civilistico qual è l’azione surrogatoria di cui all’art. 2900 c.c. .

Tornando allora alla questione iniziale, può affermarsi – come peraltro fa la Cassazione nel caso di specie – che il fornitore impoverito ha la facoltà di agire contro l’amministrazione (non direttamente ex art. 2041 c.c. ma) «surrogandosi» al funzionario pubblico; naturalmente alle condizioni che l’art. 2900 c.c. pone. A questo punto, i soggetti coinvolti, per dir così, devono intraprendere strade differenti. La Suprema Corte ne individua due: del depauperato si è appena detto qual è la via da percorrere; quanto al funzionario, invece, egli può agire a sua volta ex art. 2041 c.c. contro l’amministrazione d’appartenenza, dovendo dimostrare unicamente il fatto oggettivo dell’arricchimento. L’ente pubblico, da parte sua, ha come unica via d’uscita la prova che l’arricchimento è stato non voluto, inconsapevole o imposto . La Cassazione, nella prima delle sentenze in analisi, sviluppa un importante principio affermato qualche anno addietro in occasione di un epocale cambio di orientamento  e, correttamente, precisa che il venir meno del requisito del riconoscimento dell’utilità – un tempo richiesto nelle azioni di ingiustificato arricchimento contro le amministrazioni pubbliche  – riguarda «anche il caso in cui sia l’amministratore ad agire verso l’ente pubblico, ai sensi dell’art. 2041 c.c.».

È opportuno però segnalare che talvolta l’impoverito può ricorrere direttamente all’azione di ingiustificato arricchimento anche se deve convenire in giudizio un ente pubblico. Recentemente, difatti, la Corte ha stabilito che l’art. 191 del d.lgs. 267/2000 riguarda esclusivamente gli enti locali elencati nell’art. 2 del medesimo decreto e non essendo tale elenco suscettibile di applicazione analogica, perché di natura eccezionale, ove le prestazioni siano state eseguite in favore di enti pubblici diversi, il fornitore, non avendo a disposizione altre azioni, può agire ex art. 2041 c.c. nei confronti degli enti stessi .

Chiarite le posizioni di tutti i protagonisti della vicenda, rimane ancora un profilo da affrontare, vale a dire quello dei lavori di somma urgenza. La Corte d’Appello – la cui sentenza viene cassata dalla pronuncia in analisi – aveva escluso il ricorso al meccanismo dell’azione surrogatoria proprio perché questo sarebbe riservato esclusivamente a quel tipo di lavori, appunto, urgentissimi, come emergerebbe dalla sentenza n. 446/1995 della Corte costituzionale. La Cassazione, tuttavia, non condivide affatto questa impostazione e anzi stabilisce che dalla natura dei lavori – indifferibili od ordinari – non può discendere «una differenza sul piano delle tutele» che si spinga sino ad ammettere l’azione ex art. 2041 c.c. – attraverso l’art. 2900 c.c. – per i primi e per i secondi solo l’azione contrattuale verso il funzionario pubblico. In effetti, risulta arduo rinvenire valide motivazioni per operare una distinzione come quella della Corte territoriale.

La Cassazione, in conclusione sulla prima sentenza, afferma che il fornitore non è legittimato a proporre l’azione diretta d’indebito arricchimento verso l’ente pubblico, per difetto del requisito di sussidiarietà, a fronte della proponibilità dell’azione contrattuale verso l’amministratore; ma egli è legittimato ad esercitare l’azione ex art. 2041 c.c. contro detto ente utendo iuribus dell’amministratore (suo debitore) in via surrogatoria ex art. 2900 c.c. La soluzione proposta dal Supremo collegio potrebbe apparire poco efficiente e soprattutto macchinosa , laddove impone il ricorso ad azioni che richiedono presupposti e prove assai differenti. È però da notare che, come peraltro affermato nella stessa sentenza, esse possono essere proposte contestualmente e perciò nel medesimo giudizio; sicché il rilievo sulla complessità della soluzione appare invero trascurabile o, se si vuole, meramente teorico.

Venendo ora alla seconda pronuncia [Cass., sez. III, 22 ottobre 2021, n. 29672] , essa si occupa di altro profilo relativo all’arricchimento ingiusto, vale a dire quello dell’arricchimento c.d. indiretto. Una società (X) fornisce a un’altra (Y) del materiale per un impianto di ventilazione e quest’ultima, a sua volta, lo procura, in virtù di un contratto d’appalto, a una terza società (Z). La seconda società, sottoposta a procedura fallimentare, non estingue il debito nascente dalla fornitura e allora X agisce ex art. 2041 c.c. contro Z, «beneficiaria» della merce mai pagata. Tanto nel primo quanto nel secondo grado di giudizio le domande di X vengono rigettate, siccome, a dire dei giudici di merito, il titolo che ha consentito a Z di conseguire l’arricchimento è un titolo oneroso (i.e. il contratto d’appalto). La società ricorrente X, invece, sostiene nel ricorso per Cassazione che, se la responsabilità, nei limiti dell’arricchimento, è specificamente prevista dal legislatore nei casi in cui il terzo ha ricevuto il beneficio in virtù di un atto a titolo gratuito (art. 2038, c. 2, c.c.), a maggior ragione tale responsabilità deve essere prevista nei casi in cui manca qualsivoglia titolo giustificativo dell’acquisto, nell’ipotesi di insolvenza dell’intermediario.

Il motivo di ricorso è reputato in parte inammissibile  e in parte infondato. Quanto al merito, la trama argomentativa della sentenza in esame prende le mosse dai requisiti dell’actio de in rem verso. È pacifico che per l’ammissibilità dell’azione debbano ricorrere, tra le altre cose, i) l’assenza di un titolo specifico idoneo a far valere il credito  e ii) l’unicità del fatto, da intendersi come diretta correlazione tra impoverimento e arricchimento . Quanto al primo punto, in termini generali, si può affermare che, se la locupletazione è conseguenza di un contratto o comunque di un altro tipo di rapporto, non può dirsi che la causa manchi o sia ingiusta almeno sino a quando il contratto o l’altro rapporto conservano la propria efficacia obbligatoria . Quanto al secondo, invece, esso conduce all’esclusione dell’arricchimento c.d. indiretto, ossia quello in cui il vantaggio è conseguito da un soggetto diverso dal destinatario della prestazione dell’impoverito. Tuttavia, siccome all’azione ex art. 2041 c.c. si riconosce unanimemente un fondamento equitativo, sono state individuate due eccezioni al principio dell’unicità del fatto. Esse riguardano i seguenti casi.

L’arricchimento c.d. indiretto può essere indennizzato se è stato conseguito da un ente pubblico (diverso dall’originario destinatario della prestazione) in virtù del principio c.d. di fungibilità – tra gli enti pubblici, appunto, o tra i loro poteri – allorquando, ad esempio, l’amministrazione che riceve il vantaggio si colloca nella «sequenza» di amministrazioni che svolgono una medesima attività . L’arricchimento c.d. indiretto è altresì indennizzabile quando il terzo l’ha conseguito a titolo gratuito, come si argomenta dal combinato disposto degli artt. 2041 e 2038, c. 2, c.c. .

Nel caso sottoposto alla Cassazione, tuttavia, non si ricade certamente nell’ipotesi di ente pubblico, posto che nessuno dei soggetti coinvolti nella vicenda si presenta in tale veste. Potrebbe forse ragionarsi sulla seconda eccezione, avendo la società Z ricevuto la merce a titolo – di fatto e non di diritto, come si vedrà – gratuito ed essendo la società Y divenuta insolvente e per giunta sottoposta a una procedura fallimentare. È stato però già chiarito dalla giurisprudenza che, di fronte alla (sopravvenuta) insolvenza dell’altro contraente, alla parte non è consentito esperire l’azione di arricchimento contro il terzo che ha beneficiato della prestazione, allorquando il rapporto tra contraente e beneficiario sia stato a titolo oneroso . Solo se trattasi di prestazione gratuita è giustificabile l’ampliamento della tutela e quindi l’indennizzo per l’arricchimento conseguito dal terzo a titolo, appunto, gratuito.

Esclusa la rilevanza dell’insolvenza, la Cassazione passa all’analisi della natura del titolo. Essendo pacifico che tra le società Y e Z è stato stipulato un contratto d’appalto, non si ricade nell’eccezione di gratuità di cui sopra; e, soprattutto, prosegue ancora la Corte, creando così un collegamento tra le ipotesi in discorso, «deve […] escludersi che tale stato d’insolvenza abbia determinato una automatica conversione della natura di siffatta prestazione da onerosa in gratuita». È opportuno ricordare, per chiarezza, che il fallimento della società Y è stato determinato proprio da un’istanza della società X e quest’ultima, dunque, prima di ricorrere all’azione di ingiustificato arricchimento – come precisa opportunamente la Suprema Corte – ben può far valere le proprie pretese mediante l’insinuazione al passivo fallimentare.

La disamina condotta nella sentenza in esame non si esaurisce qui. Collocate in disparte la gratuità e l’insolvenza, la Cassazione va oltre ed esclude altresì che la risoluzione del contratto d’appalto tra Y e Z possa assumere rilievo: «alla risoluzione del contratto conseguono (anche) diritti e pretese restitutorie»  che, evidentemente, impediscono la proposizione dell’azione di ingiustificato arricchimento, pena la violazione della sussidiarietà.

All’esito di questo percorso argomentativo, si perviene al rigetto del ricorso. Non potendo ravvisare le esigenze di equità che giustificherebbero l’indennizzo per un arricchimento indiretto (la qualità di ente pubblico o la gratuità dell’attribuzione), la Corte non può far altro che confermare la pronuncia del giudice territoriale e dare continuità all’attuale e condivisibile indirizzo giurisprudenziale.

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