Se l’esecuzione dell’appalto comporta dei rischi per l’incolumità di lavoratori e terzi, la cooperazione del committente pubblico implica il suo consenso ad una ridefinizione del contenuto del contratto tale da garantire la sicurezza dei lavori. Qualora il committente pubblico non presti la necessaria cooperazione, e l’appaltatore risulti per questo inadempiente, l’attivazione della clausola risolutiva espressa risulta contraria a buona fede.
La S.C. si pronuncia sull’obbligazione del committente pubblico di cooperare all’esecuzione del contratto di appalto e sul rapporto tra clausola risolutiva espressa e sindacato di buona fede. In relazione ad entrambi gli aspetti viene adottata una posizione decisamente favorevole all’integrazione degli effetti del contratto: si ritiene, infatti, che il committente sia tenuto a cooperare all’esecuzione dell’appalto ben oltre i limiti del comportamento strettamente necessario a permettere la realizzazione dell’opera o la prestazione del servizio, e che la scelta di reagire all’inadempimento dell’appaltatore attivando una clausola risolutiva espressa debba essere valutata alla luce della cooperazione fornita.
Una società si obbliga nei confronti di un comune, «senza riserva alcuna», ad effettuare la manutenzione dell’impianto elettrico impiegato per fornire il servizio di illuminazione pubblica. La conclusione del contratto di appalto è preceduta dall’ispezione dell’impianto. In un secondo momento, tuttavia, i tecnici della società constatano l’impossibilità di procedere alla manutenzione senza prima aver messo in sicurezza l’impianto: la prestazione del servizio sarebbe stata altrimenti rischiosa per il personale della società e per gli stessi cittadini del comune. Quest’ultimo viene avvertito della criticità riscontrata e chiede per due volte il preventivo dei lavori supplementari necessari per garantire la sicurezza dell’impianto; ma pur avendo ricevuto tempestivamente la documentazione da parte della società appaltatrice, non acconsente ad integrare il capitolato d’appalto. Siccome, allora, la società si astiene dalla prestazione del servizio, il comune scioglie il rapporto avvalendosi della clausola risolutiva espressa contenuta nel contratto.
La società, allora, conviene in giudizio il committente chiedendo il risarcimento del danno derivante dal suo inadempimento e dalla conseguente illegittimità della scelta di avvalersi della clausola risolutiva espressa. Nei due gradi del processo di merito la domanda viene rigettata in considerazione del fatto che l’appaltatrice aveva ispezionato l’impianto prima di concludere il contratto e che l’obbligazione di manutenzione era stata espressamente assunta «senza riserva alcuna».
Con l’ordinanza in esame, tuttavia, la Cassazione accoglie il ricorso della società. Nel confermare il rigetto della domanda di risarcimento, il giudice di secondo grado avrebbe omesso di considerare l’obbligazione di cooperare all’esecuzione del contratto di appalto, riconducibile ai principi di correttezza e buona fede oggettiva e all’art. 1206 c.c. (in questi termini già Cass. 25554/2018 e Cass. 12698/2014). Come è evidente, il riferimento a quest’ultima disposizione ha una valenza puramente esornativa, non essendo in discussione l’applicazione della disciplina della mora del creditore, ma l’addebito del risarcimento del danno conseguente alla scelta di risolvere il contratto.
Più pertinente il richiamo ai principi di correttezza e buona fede, alla luce dei quali occorre valutare la condotta tenuta dall’appaltatore e la conseguente legittimità della scelta di avvalersi della clausola risolutiva espressa effettuata dal committente pubblico. La conclusione viene giustificata sulla base di una precedente pronuncia nel contesto della quale si è sostenuto che la conformità a buona fede del comportamento del debitore, e la conseguente contrarietà ad essa della pretesa del creditore, valgono ad escludere il fatto stesso dell’inadempimento (Cass. 23868/2015).
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