Risoluzione del leasing per inadempimento dell’utilizzatore e autonomia privata: l’integrazione giurisprudenziale del c.d. patto di deduzione

Corte di Cassazione, sez. III, 14 ottobre 2021, n. 28023

È valido il c.d. patto di deduzione, in virtù del quale nei contratti di leasing traslativo si stabilisce che il concedente, nel caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, ha diritto a titolo di penale al pagamento dei canoni scaduti e di quelli futuri, attualizzati al momento della risoluzione, previo diffalco di quanto ricavato dalla vendita del bene.

Il patto c.d. di deduzione deve essere interpretato ed applicato secondo correttezza e buona fede, con la conseguenza che:

  • (a) se al momento in cui il concedente esige il proprio credito (restitutorio e/o risarcitorio) nei confronti dell’utilizzatore il bene è stato già rivenduto, il concedente dovrà portare in diffalco il ricavato, salva la responsabilità del concedente ex art. 1227 c.c., comma 2, nel caso di vendita ad un prezzo vile per propria negligenza;
  • (b) se al momento in cui esige il proprio credito nei confronti dell’utilizzatore il bene non è stato ancora rivenduto, il concedente dovrà portare in diffalco il valore commerciale del bene, stimato col criterio del valore equo di mercato.

È valida la clausola che attribuisce al concedente, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, la facoltà di determinare unilateralmente il valore del bene oggetto del contratto, e sottrarlo dal credito residuo vantato nei confronti dall’utilizzatore le clausola, tuttavia, ha per corollario l’obbligo del concedente di stimare il bene secondo correttezza e buona fede; in caso di contestazione della stima da parte dell’utilizzatore, è onere del concedente indicare il criterio adottato, e dell’utilizzatore dimostrarne l’eventuale erroneità.

Se l’erroneità della stima effettuata dal concedente può essere dimostrata solo ricorrendo alla consulenza tecnica d’ufficio, il giudice è tenuto ad accogliere la relativa richiesta dell’utilizzatore.

La sentenza offre un contributo importante alla ricostruzione del c.d. patto di deduzione, mediante il quale le parti del contratto di leasing determinano gli effetti della risoluzione conseguente all’inadempimento dell’utilizzatore. E siccome la normativa attualmente vigente (art. 1, cc. 136-140, l. 124/2017) recepisce, nei suoi lineamenti essenziali, il meccanismo elaborato dalle parti in sede di redazione del patto, la sentenza offre un contributo rilevante anche ai fini della sua interpretazione.

La controversia che perviene all’attenzione della S.C. verte su una clausola frequentemente inserita nei contratti di leasing. In base ad essa, quando il contratto si risolve per l’inadempimento dell’utilizzatore il concedente è legittimato:

  • (a) a ritenere i canoni di leasing già ricevuti;
  • (b) ad esigere il pagamento dei canoni scaduti e non pagati dall’utilizzatore;
  • (c) a pretendere il pagamento dei canoni futuri spettatigli fino alla scadenza naturale del contratto e attualizzati al momento della risoluzione. Il patto prevede, poi, che dal credito del concedente così determinato debba essere detratto quanto ricavato dalla vendita o dal reimpiego del bene concesso in leasing, e restituito al concedente a seguito della risoluzione.

Nella fattispecie, la società concedente ottiene l’emissione di un decreto ingiuntivo per un importo determinato sommando i canoni insoluti a quelli dovuti dall’utilizzatore fino al termine del rapporto e detraendo il valore commerciale del bene concesso in leasing come determinato dalla stessa società concedente. L’opposizione effettuata dall’utilizzatore e continuata, dopo il suo fallimento, dalla curatela e dal fideiussore – viene rigettata con sentenza confermata in appello. Il fideiussore ricorre allora per cassazione sulla base di una serie di motivi, in relazione ai quali la S.C. assume una posizione articolata. In estrema sintesi, il giudice di legittimità: (i) afferma la validità del patto di deduzione; (ii) ne ricostruisce l’applicazione in modo tale da assicurare il rispetto del principio di buona fede nell’interpretazione (art. 1366) e nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.); (iii) ritiene che quando la stima del valore del bene concesso in leasing – e destinato ad essere detratto dall’importo dei canoni esigibili dal concedente – può essere verificata solo ricorrendo alla consulenza tecnica d’ufficio, il giudice debba accogliere la corrispondente richiesta dell’utilizzatore.

Più in dettaglio:

(i) nel ritenere valido il patto di deduzione, la sentenza disattende una posizione affiorante di recente nella giurisprudenza di legittimità , ma già smentita dalle sezioni unite nel contesto della pronuncia con la quale hanno escluso il carattere retroattivo della disciplina rinvenibile nella l. 124/2017 . Si ritiene che la clausola rispetti i principi ai quali ci si riferisce con l’espressione «ordine pubblico economico»: nozione della quale, peraltro, l’estensore mette in dubbio la rilevanza giuridica . Se da un lato la clausola recepisce una soluzione già adottata dalla convenzione di Ottawa sul leasing internazionale  – sulla quale, dunque, è ricalcata anche la disciplina dettata dalla l. 124/2017 – dall’altro essa rispetta la disciplina codicistica, tuttora applicabile ai contratti di leasing in cui i presupposti della risoluzione si siano verificati anteriormente all’entrata in vigore della l. 124/2017 . Si osserva, infatti, che il diritto del concedente di ritenere i canoni incassati trova riscontro nel dettato dell’art. 1526, c. 2, c.c. – applicabile alla variante “traslativa” del leasing – mentre il diritto di pretendere i canoni dovuti fino al termine del rapporto è compatibile con il disposto dell’art. 1382, salva l’eventualità di una riduzione giudiziale. È essenziale, in quest’ottica, la detrazione del valore del bene concesso in leasing, che evita l’arricchimento ingiustificato del concedente impedendogli di conseguire una posizione migliore di quella in cui si sarebbe trovato grazie alla regolare esecuzione del contratto.

A favore della validità della clausola, si può ulteriormente osservare che essa tende a riprodurre la situazione che si sarebbe verificata se il contratto fosse stato compiutamente eseguito. I canoni esigibili fino al termine del rapporto sarebbero stati incassati dal concedente, che tuttavia deve detrarre da essi il valore del bene in quanto lo stesso sarebbe stato utilizzato dalla controparte nella frazione restante del rapporto, per poi essere eventualmente acquistato esercitando il diritto di opzione. Se allora si limita a riprodurre la situazione che si sarebbe verificata per effetto della fisiologica attuazione del rapporto, la clausola è certamente compatibile con il regime dei rimedi contro l’inadempimento, orientato alla protezione dell’interesse positivo della parte fedele al contratto;

(ii) il patto – osserva il ricorrente – non prevede i criteri sulla base dei quali deve essere determinato il valore del bene da portare in detrazione: in considerazione di ciò, esso sarebbe nullo per indeterminatezza dell’oggetto. La S.C. replica che il silenzio del patto in ordine alle modalità di determinazione della somma che rappresenta il valore del bene non ne comporta la nullità; la lacuna del regolamento contrattuale, infatti, può essere efficacemente integrata ricorrendo al principio di buona fede nell’interpretazione (art. 1366 c.c.) e nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.).

Alla luce di esso, la somma destinata ad essere detratta dal credito del concedente coincide con quella che rappresenta il valore equo di mercato del bene nel luogo e nel tempo della risoluzione (fair value). Qualora il concedente riesca a realizzare un valore maggiore, l’intero ricavato dovrà essere detratto dal suo credito, sulla base della compensatio lucri cum danno. Se invece a causa della propria negligenza il concedente ricavasse dal bene una somma inferiore, dovrebbe detrarre dal proprio credito il più elevato valore di mercato, e non la minor somma ottenuta: lo impone la regola che esclude la risarcibilità del danno evitabile con l’ordinaria diligenza (art. 1227, c. 2, c.c.).

(iii) può accadere che il concedente non abbia rivenduto il bene a terzi né lo abbia altrimenti ricollocato sul mercato. È quanto era avvenuto nel caso di specie: nel ricorso con cui aveva chiesto l’emissione del decreto ingiuntivo, infatti, la società concedente aveva detratto dal credito avente ad oggetto i canoni esigibili fino al termine del rapporto non il corrispettivo ottenuto da un terzo, ma una somma unilateralmente determinata, ancorché ritenuta idonea a rappresentare correttamente il valore del bene. La valutazione era stata contestata dall’utilizzatore e dal fideiussore, secondo i quali il valore reale del bene al momento della risoluzione sarebbe stato più elevato. In entrambi i gradi del processo di merito, tuttavia, la stima compiuta dal concedente era stata confermata, essendo stata rigettata la richiesta di consulenza tecnica d’ufficio avanzata dall’utilizzatore e dal fideiussore per dimostrare l’erroneità della determinazione.

Cassando, sul punto, la sentenza di secondo grado, la S.C. enuncia alcune regole operative necessarie per assicurare il funzionamento del patto. La clausola che riconosce al concedente la facoltà di determinare unilateralmente il valore del bene è valida, ma se l’utilizzatore contesta la congruità della stima il concedente ha l’onere di indicare il criterio adottato per consentire al giudice di valutarne la correttezza. Nel contraddittorio che si sviluppa tra le parti sul punto specifico, è onere dell’utilizzatore dimostrare l’erroneità dei criteri adottati dal concedente nella determinazione del valore del bene. Qualora l’erroneità della stima effettuata dal concedente possa essere dimostrata solo ricorrendo alla consulenza tecnica d’ufficio, il giudice è tenuto ad accogliere la richiesta formulata in tal senso dall’utilizzatore.

Siccome nella fattispecie l’utilizzatore aveva contestato la determinazione compiuta dal concedente chiedendo che la sua erroneità venisse accertata mediante consulenza tecnica d’ufficio, il rigetto della richiesta implica l’irragionevolezza della sentenza di secondo grado, giustificandone la cassazione. Il giudice aveva rigettato la domanda dell’utilizzatore perché non provata; senonché, era stato lo stesso giudice ad impedire all’utilizzatore di assolvere l’onere della prova escludendo il ricorso alla consulenza tecnica.

NOTE

1 Tra contributi relativi alla nuova disciplina, si segnalano quelli di T. Mauceri, Risoluzione per inadempimento e contratto di leasing, in Contr. impr.,2020, p. 1517; E. Lucchini Guastalla, Il contratto di leasing finanziario alla luce della legge n. 124/2017, in Nuova giur. civ. comm., 2019, II, p. 179; P. Duvia, Leasing e inadempimento dell’utilizzatore dopo l’entrata in vigore della L. n. 124 del 2017, in Rass. dir. civ., 2019, p. 327; C. Tranquillo, La nuova disciplina del leasing nella legge n. 124 del 2017, in Europa dir. priv., 2018, p. 123 ss.; G. Di Rosa, La disciplina della locazione finanziaria nella prima legge annuale per il mercato e la concorrenza, in Contr., 2018, p. 215; C. Patriarca, La nuova disciplina della locazione finanziaria, in Nuove leggi civ. comm., 2018, p. 1116.

Professore ordinario di diritto privato nell’Università di Pavia

Autore di diversi contributi in materia di contratto, obbligazioni, responsabilità civile, diritto delle persone e della famiglia. Tra le monografie, Sulle definizioni legislative nel diritto privato, Giappichelli, 2004; Adempimento e risarcimento nei contratti di scambio, Giappichelli, 2013; La cooperazione all’adempimento e i rimedi a tutela del debitore, Giuffrè, 2019. Tra i contributi a trattati, Inattuazione e risoluzione: i rimedi, in Trattato del contratto diretto da Roppo, 2ª ed., V, Rimedi-2, Giuffrè, 2022, 163-653 e L’appalto: il tipo e la struttura; L’appalto: garanzie e responsabilità, in Trattato dei contratti, diretto da Roppo e Benedetti, Giuffrè, 2014, III, Opere e servizi-1, Giuffrè, 2014, 5-178 e 321-522.

Fa parte del comitato editoriale di Contratto e impresa, Cedam, dal 2017 e di Accademia, Pacini, dal 2023. Coordina la sezione Giurisprudenza dell’Annuario del contratto a partire dalla fondazione (2009).

Presiede il consiglio di amministrazione di Parco Tecnico Scientifico di Pavia s.r.l., società interamente controllata dall’Università di Pavia.

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