Recensioni

François Ancel, Bénédicte Fauvarque-Cosson, Il nuovo diritto francese dei contratti, trad. it. di C. Perfumi, prefazione di C. Amato, Giappichelli, Torino, 2021, pp. XXVI-221.

Il volume in esame è la traduzione italiana, quasi integrale, del libro di François Ancel e Bénédicte Fauvarque-Cosson, Le nouveau droit des contats. Guide bilingue à l’usage des praticiens, L.G.D. J., Paris, 2019. La versione italiana va accolta con plauso, rendendone merito a Cristina Amato, fautrice dell’iniziativa, perché il volume di Ancel e Fauvarque-Cosson è un libro necessario per comprendere sino in fondo, e con piena consapevolezza, il senso e la portata della riforma del Libro Terzo del Code Civil, attuata nel biennio 2016-2018, ma frutto di una lunga e articolata gestazione. L’esigenza di aggiornare il Code Napoléon si manifesta sin dalla fine del XIX secolo e diviene oggetto di dibattito già in occasione del centenario del codice, anche su impulso delle sollecitazioni provenienti dalla comparazione giuridica e del forte impatto che ebbe l’entrata in vigore del BGB il 1° gennaio 1900. Nel corso del XX l’intervento più significato di novellazione si ebbe nel 1964, ma il suo perimetro è stato relativamente circoscritto, limitandosi a interventi in materia di persone e famiglia, affidati alla sapienza riformatrice di Jean Carbonnier. Il rinnovato impulso alla riforma del Code civil è coinciso con i festeggiamenti del bicentenario, nel 2004, addirittura su iniziativa del Presidente della Repubblica Jacques Chirac, il quale indicò l’obiettivo ambizioso di riscrivere in un quinquennio il diritto dei contratti e delle garanzie. Poco prima del bicentenario un gruppo di professori di diritto civile, coordinati da Pierre Catala, aveva avviato un progetto di rinnovamento del diritto delle obbligazioni e dei contratti sulla spinta esercitata dal confronto tra le soluzioni codicistiche francesi e quelle contenute nei Principles of European Contract Law della commissione presieduta da Ole Lando.

Il pungolo riformatore offerto dalla comparazione con il diritto europeo e con il diritto transnazionale rappresenta una delle chiavi di lettura della revisione del Libro Terzo del Code civil e il volume di Ancel e Fauvarque-Cosson dedica al tema pagine illuminanti, che consentono di affrancarsi da certe semplificazioni che è possibile leggere nella letteratura, tanto nazionale quanto straniera. Complesso è, infatti, il rapporto tra la riforma francese e il processo di armonizzazione dei diritti nazionali attuato dall’Unione europea, ma soprattutto con il c.d. diritto privato europeo di matrice culta, coincidente con quei laboratori di un diritto privato uniforme culminati nel Draft Common Frame of Reference e, successivamente, prima nel Feasibility Study e poi nella proposta di regolamento per un Common Europea Sales Law (per un riepilogo v. S. Mazzamuto, Il contratto di diritto europeo4, Torino, 2020, pp. 6 ss., 155 ss.). Il diritto privato europeo in elaborazione non ha esercitato soltanto un’influenza emulativa, o di stimolo, ma anche reattiva. La convinzione che alcune delle soluzioni proposte nei progetti di uniformazione del diritto europeo dei contratti, ma anche contenute nel diritto vigente di origine “comunitaria”, siano incompatibili con la tradizione giuridica francese, per la prevalenza su di essi esercitata da modelli stranieri, ha suscitato un moto di rifiuto tanto del progetto di codice civile europeo quanto del diritto comune dei contratti, rinfocolando l’orgoglio nazionale. In pari tempo, l’impressione suscitata dalle dure critiche sferrate all’efficacia del sistema privatistico francese dal primo rapporto “Doing Business” del 2004 promosso dalla Banca Mondiale e la prospettiva, da quest’ultimo dischiusa, della rivalità, se non di vera e propria concorrenza, tra i sistemi giuridici di common law e di civil law, per un verso, hanno anch’esse ravvivato un certo nazionalismo, ma, per altro verso, hanno fatto emergere l’improcrastinabilità di un intervento rinnovatore sul diritto delle obbligazioni e dei contratti. La spinta alla riforma nasce, dunque, dalla presa di coscienza della necessità di un ammodernamento, ma, in misura non minore, dall’obiettivo di rilanciare il diritto francese, anche in considerazione dello stallo nel processo di elaborazione di un diritto comune europeo dei contratti, ma preservandone le strutture ordinanti, i principi tradizionali e le coordinate di sistema, messi in discussione dai laboratori del diritto comune guardati con sempre maggiore scetticismo dalla cultura giuridica francese. Osservano gli autori che «la riforma del diritto dei contratti, a lungo sospesa nell’attesa di un intervento del legislatore europeo, ha trovato nello sviluppo dei progetti di diritto europeo dei contratti un nuovo impulso unificante: bisognava agire velocemente, per difendere le peculiarità del diritto francese dei contratti» (Ancel, Fauvarque-Cosson, Il nuovo diritto francese dei contratti, cit., p. 18).

Di estremo interesse è il resoconto del processo di elaborazione della riforma, suddiviso dagli autori in cinque diversi momenti. Ne emerge, infatti, la ricchezza del dibattito e il carattere certo non estemporaneo dell’esito riformatore affidato all’Ordonnance n. 2016-131 del 10 febbraio 2016, ma anche l’asprezza a volte assunta dalla discussione pubblica, come testimoniano le durissime critiche di costituzionalità rivolte alla scelta di affidare la riforma allo strumento dell’Ordonnance, di cui si è reso interprete il Senato, nonché il deferimento della legge di delegazione n. 2015-177 del 16 febbraio 2025 al Conseil constitutionnel proprio su iniziativa di sessanta senatori. Il fervore del processo riformatore non si è esaurito con l’emanazione dell’Ordonnance ma è proseguito anche in sede di conversione: la Loi de ratification n. 2018-287 del 20 aprile 2018 ha difatti modificato diverse disposizioni e nel corso dell’iter legislativo si è ritenuto di affidare ai lavori parlamentari alcune importanti precisazioni volte a guidare l’interpretazione delle nuove norme, anche con riferimento a quelle non modificate in sede di conversione. Si tratta di un metodo legislativo inedito che vede il Parlamento, in sede di conversione, non limitarsi ad apportare modifiche al testo dell’Ordonnance, ma impegnarsi, anche laddove non si siano apportate innovazioni, a «dare un’interpretazione chiara ad alcune disposizioni dell’ordonnance, eliminare le ambiguità e dissipare le inquietudini» (Rapport n. 22 (2017-2018) del senatore François Pillet). Ai tentativi subito messi in atto in dottrina per ridimensionare i chiarimenti di valenza interpretativa offerti dal Parlamento, per lo meno con riguardo alle disposizioni non emendate, gli autori replicano che «la ratification di un’ordonnance da parte del Parlamento costituisce l’ultima tappa del processo previsto dalla Costituzione per l’elaborazione di una legge tramite ordonnance. Ne consegue che, se si desidera dare un senso a questa fase, sia preferibile lasciare effettivamente l’ultima parola al Parlamento, in tutta la sua pienezza, e considerare che anche qualora il Parlamento non modifichi una disposizione, la lettura che ne sia fatta in occasione del dibattito per l’esame della loi de ratification sia espressione della ratio legis. Si deve, peraltro, tener conto del fatto che il Parlamento ha espressamente scelto di non modificare alcune disposizioni dell’ordonnance per evitare d’incrementare l’incertezza del diritto ma ne ha tuttavia precisato l’ambito applicativo. Tale ragionamento è a maggior ragione valido con riguardo agli articoli dell’ordonnance che sono stati oggetto di emendamenti iniziali, successivamente ritirati dai loro stessi promotori in quanto favorevolmente convinti dagli argomenti esposti dai relatori del Senato e dell’Assemblée nationale, senza che fosse più necessario aggiungere ulteriori precisazioni nel testo. In un momento storico in cui si deplora l’inflazione legislativa, tale atteggiamento responsabile e costruttivo dei parlamentari pare particolarmente meritevole di plauso e non deve, quindi, essere scoraggiato, sminuendone la portata» (Ancel, Fauvarque-Cosson, Il nuovo diritto francese dei contratti, cit., p. 31).

Questa conclusione potrebbe non incontrare il favore di quell’area della dottrina civilistica nostrana che, sul presupposto della distinzione tra proposizione normativa e norma, ritiene che il testo normativo costituisca soltanto uno dei criteri di determinazione della norma, e secondo taluni neppure quello più significativo. Al di là delle contrapposizioni di teoria generale e di assetto delle fonti del diritto, l’osservatore italiano, di qualunque orientamento sia, dovrebbe invece apprezzare il riguardo che Ancel e Fauvarque-Cosson riservano al legislatore, perché espressivo della perdurante fiducia d’oltralpe nel principio di separazione dei poteri e nella capacità regolativa e propulsiva della politica.

Sulla base di queste premesse, acquista piena coerenza la preferenza manifestata da A&F-C per il ritorno al metodo esegetico. Se la riforma della disciplina codicistica delle obbligazioni e dei contratti deve essere presa sul serio come momento di autentico rinnovamento del diritto francese, frutto anche dell’incorporazione nel codice dei migliori prodotti dell’elaborazione giurisprudenziale e della riflessione scientifica del XX secolo, è allora necessario tributare il giusto peso non soltanto al testo della disciplina riformata, ma anche alle ragioni che l’hanno determinata. Quel metodo esegetico, caduto in discredito nel corso del secolo XX a causa dei profondi cambiamenti economici e sociali rispetto al quadro di riferimento del Code civil del 1804 che ne avevano reso irragionevole il ricorso, ora appare invece tornare attuale in presenza di una disciplina nuova, ritagliata intorno alla realtà sociale ed economica attuale. Bisogna tuttavia intendersi sulla portata del metodo esegetico. Sulle orme di Gerard Cornu (Id., Droit civil. Introduction, Montchrestien, 1985, nn. 392 e 406), A&F-C concepiscono il metodo dell’esegesi non, secondo la vulgata, come idolatria del testo, ma come canone ermeneutico sostanzialista che, nei casi controversi, fa prevalere lo spirito della legge sulla lettera, nella consapevolezza che, anche al cospetto di disposizioni rinnovate, non tutto è nella legge, la quale esige adattamenti in sede interpretativa in vista della sua applicazione (Ancel, Fauvarque-Cosson, Il nuovo diritto francese dei contratti, cit., p. 32). Una realtà, questa, incontrovertibile, tenuta bel presente dal riformatore francese, il quale ha infatti saputo valorizzare le clausole generali, specie quella di buona fede oggettiva, che interpellano il giudice e il suo potere determinativo della norma indeterminata.

Si è esordito sostenendo che il volume di A&F-C è un libro necessario. Alla luce di quanto si è sin qui riferito, sarà più chiaro il significato di questo giudizio. Le riflessioni di A&F-C rammentano al lettore che il diritto di un popolo è un fenomeno culturale complesso, di cui la formulazione linguistica delle disposizioni normative rappresenta soltanto un carattere esteriore. La reale, piena, consapevole comprensione di un diritto straniero non si può arrestare alla conoscenza della formulazione delle norme, specie se esse sono incluse in un testo di portata costitutiva dei rapporti civili qual è, negli ordinamenti fondati sulla legge scritta, il codice civile. La penetrazione dell’effettiva portata delle soluzioni normative di un sistema straniero esige uno sguardo più approfondito, esteso al contesto originario in cui la norma è stata concepita, alla ratio che storicamente si è intesa perseguire, agli adattamenti che nel tempo dottrina e giurisprudenza hanno apportato all’originario senso prevalente, alle preferenze sistematiche della cultura giuridica del luogo. È proprio per agevolare una comprensione non epidermica del novellato diritto francese delle obbligazioni e dei contratti che il volume di A&F-C è stato concepito, il che sottintende una concezione alta e nobile della comparazione giuridica. Da ciò la scelta di predisporre la versione originaria del volume con un testo bilingue, francese e inglese, e di etichettare nel sottotitolo l’opera come una “guida”, per di più a uso dei pratici. Si avverte dell’understatement in questa scelta. “Le nouveau droit des contats” è infatti un prontuario, o forse sarebbe più corretto sostenere che esso rappresenta un’introduzione al novello diritto delle obbligazioni e dei contratti, perché il volume mira non soltanto a esporre in forma estremamente sintetica le principali novità normative, ma si propone soprattutto di fornire a coloro che vi si accostino, mediante il richiamo del dibattito che ha preceduto la riforma e dei lavori parlamentari, chiavi per una lettura più approfondita e consapevole dei testi nuovi, svelando i problemi regolativi che ne hanno sollecitato l’introduzione e le ragioni che si sono volute perseguire. Tali chiarimenti sono utili non soltanto per l’interprete nazionale, ma anche per l’osservatore straniero, il quale può accedere così, con una certa facilità, allo spirito della riforma, favorendone una diffusione internazionale più accurata e circostanziata.

Il volume contiene indicazioni preziose, quali: i chiarimenti in ordine al momento di entrata in vigore delle nuove norme e di quelle modificate dalla loi de ratification e al diritto intertemporale (cap. 1 della Parte II); il riepilogo del dibattito sulla natura ordinariamente dispositiva della disciplina generale del contratto (cap. 2 della Parte II) e ancora il confronto sui rapporti tra diritto generale e diritto speciale (cap. 3 della Parte II). Di particolare interesse sono le pagine dedicate all’applicazione del diritto francese ai contratti internazionali e, in particolare, le riflessioni sul grado di resistenza di quest’ultimo alle deroghe, nel caso in cui le parti optino per assoggettare il contratto a una legge straniera. Il baluardo è rappresentato dalle c.d. lois de police, ossia dalle norme di ordine pubblico internazionale, ma l’identificazione delle norme imperative interne introdotte dalla riforma suscettibili di concorrere a delineare l’ordine pubblico internazionale non è un’operazione piana, visto che né i testi della riforma né il Rapporto del Presidente della Repubblica forniscono indicazioni a tal proposito. Ecco allora che, come sempre accade al cospetto di dispositivi normativi di carattere indeterminato, è al giudice che va affidata la selezione, alla luce delle prassi giurisprudenziali europea e francese, delle norme interne la cui non applicazione vanificherebbe i principi ispiratori della riforma. L’eccezione di ordine pubblico internazionale permette al giudice, in via d’eccezione, di «escludere la legge straniera normalmente applicabile, qualora il suo contenuto conduca a un risultato ingiusto o violi i principi fondamentali dell’ordine giuridico del foro o che risultino da una politica legislativa recentemente attuata». E il sindacato non potrà che essere condotto in concreto (Ancel, Fauvarque-Cosson, Il nuovo diritto francese dei contratti, cit., pp. 85-86). Tra le righe del discorso sembra intravedersi l’idea che l’attualità dei principi ispiratori della riforma, la forte volontà politica che li sorregge e la circostanza che essi permeino la più vasta e significativa revisione del Code civil dal 1804 ad oggi potrebbero rilanciare l’eccezione di ordine pubblico internazionale, puntellandola su molte delle disposizioni imperative che fungono da chiavi di volta della riforma, così da non vanificarne uno degli obiettivi politici: rilanciare il diritto francese dei contratti come modello di regolazione dei traffici internazionali. È interessante segnalare che il dibattito francese affida la funzione di presidiare le norme e i principi identificativi della riforma al congegno dell’ordine pubblico internazionale che, invece, nel dibattito e nella giurisprudenza italiani è stato adoperato per rendere eseguibili in Italia provvedimenti giudiziari stranieri che, invece, innovano rispetto ad assetti sistematici consolidati, che concorrono a delineare l’organizzazione sociale ed economica della nazione e che, proprio per questo, sono da molti qualificati di ordine pubblico interno. Si pensi al caso notissimo della riconoscibilità di provvedimenti stranieri di condanna al c.d. risarcimento sanzionatorio (Cass., sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601).

In questa sede non si cederà alla tentazione di entrare nel merito di alcune delle disposizioni-manifesto della riforma, passate in rapida rassegna nella Parte IV del volume (pp. 131-220). Si allude soprattutto: alla disciplina della fase precontrattuale (art. 1112 Code civil), degli accordi preparatori (artt. 1123 e 1124) e della conclusione del contratto (artt. 1113-1122); alla disciplina della validità del contratto, con specifico riferimento all’errore, al dolo omissivo e alla violenza economica (1129-1144); alla soppressione del termine “causa”, con la consacrazione però in specifiche disposizioni delle funzioni assegnatele dalla giurisprudenza (artt. 1169 e 1170 Code civil); alla determinazione unilaterale del prezzo (art. 1164); alla disciplina delle clausole abusive nei rapporti paritari (art. 1171); al criterio qualitativo di determinazione della prestazione fondato sulle aspettative legittime (art. 1166); all’introduzione delle azioni interrogatorie, vale a dire di forme di “interpello” tra le parti volte a ridurre l’incertezza sulla sorte dei rapporti giuridici (artt. 1123, 1183 e 1158); alla regolazione sistematica della reazione all’inadempimento del contratto, che include anche la discipline del c.d. adempimento in natura (artt. 1217-1231-7); alla positivizzazione dell’imprévision e dell’obbligo di rinegoziazione i termini del contratto.

Non ci si può sottrarre, però, a qualche breve notazione sui principi cardinali della riforma, esaminati dagli autori nella Parte (pp. 91-130). Il riferimento va all’obiettivo della certezza del diritto, alla modernizzazione della concezione del contratto e delle sue classificazioni e, infine, al ruolo assegnato al giudice. Il fine della certezza del diritto è stato perseguito rendendo maggiormente accessibile il diritto generale dei contratti mediante la sua semplificazione e chiarificazione. Com’è evidente, la certezza postula anche un’ulteriore fine, ritagliato sul diritto contrattuale, ossia quello della sicurezza delle parti in ordine al fatto che il regolamento contrattuale non verrà ridefinito dal giudice in sede contenziosa (Ancel, Fauvarque-Cosson, Il nuovo diritto francese dei contratti, cit., p. 91). La certezza si interseca, dunque, con la questione del potere di eteronomia del giudice e della sua ampiezza. La posizione di A&F-C è netta e pervasa da un grande equilibrio. È possibile conciliare le due esigenze: quella di garantire esiti applicativi predicibili, anche con riguardo agli sviluppi del rapporto contrattuale, e quella di assicurare l’adattamento della regola a circostanze nuove e, in campo contrattuale, di contrastare forme di squilibrio frutto di predominanza o di approfittamento, ossia di perseguire la c.d. giustizia contrattuale. Agli occhi di A&F-C le critiche da alcune parti sollevate nei confronti della riforma circa l’appannamento dell’obiettivo della certezza del diritto che sarebbe derivato dall’accentuazione dei poteri del giudice fatta segnare dalla nuova disciplina paiono eccessive, tanto più se si tengono nel giusto conto le regole operanti in common law. Critiche siffatte «lasciano intendere che i giudici non eserciteranno i poteri loro attribuiti con cautela e non tengono in considerazione le garanzie poste dal legislatore. Tali critiche evidenziano il divario tra i sistemi di tradizione romanist[ic]a e quelli di common law (a favore di questi ultimi), omettendo di precisare che i sistemi di common law, in determinate circostanze, consentono comunque al giudice di intervenire sul contratto. Tutti i comparatisti sanno che i sistemi di common law non restano indifferenti di fronte agli squilibri contrattuali più evidenti e l’osservatore attento del nuovo diritto francese scoprirà che i poteri del giudice sono ben definiti e che, laddove non lo sono, il giudice sarà in grado di autocensurarsi» (Ancel, Fauvarque-Cosson, Il nuovo diritto francese dei contratti, cit., p. 92). La replica è ineccepibile, salvo forse l’ultima notazione la quale, nella sua perentorietà, vale tanto quanto quella diametralmente opposta secondo cui l’intervento del giudice è sempre nefasto, determinando un’intollerabile violazione delle prerogative dell’autonomia privata e del principio di certezza del diritto. Va sottolineato che A&F-C colgono uno dei punti di maggiore tensione dei sistemi giuridici continentali contemporanei: l’inevitabile presa d’atto dell’oggettiva complicazione degli ordinamenti giuridici fondati sulla legge scritta, provocata dall’influenza esercitata dall’alto dalle Costituzioni, dal diritto europeo e dai trattati internazionali, con il loro corredo di principî e di diritti inviolabili direttamente applicabili nei rapporti tra privati, e dall’influenza proveniente dal basso dall’esigenza di adeguare per via interpretativa il diritto scritto all’evoluzione sociale ed economica, grazie alle potenzialità intrinseche a ogni operazione ermeneutica, anche quando relativa a fattispecie normative a impianto analitico, e poi all’incremento di potere determinativo conferito al giudice dalle fattispecie inclusive di clausole generali.

Sul piano strettamente contrattuale, i timori, anche degli ambienti economici, che l’espansione dei poteri giudiziali potesse generare incertezza e rendere meno appetibile il diritto francese riformato sono stati tenuti in considerazione circoscrivendo l’area di incidenza del controllo del giudice sul regolamento contrattuale (si pensi alla disciplina delle clausole abusive nei contratti tra professionisti: art. 1171 Code civil) prevalentemente ai contratti per adesione (v. Ancel, Fauvarque-Cosson, Il nuovo diritto francese dei contratti, cit., p. 183 ss.). Il punto di equilibrio tra le istanze, a volte contrapposte, della giustizia contrattuale e della certezza del diritto viene individuato da A&F-C nel riconoscere al giudice sì poteri di rideterminazione del contenuto del contratto, ma vincolati al servizio di quest’ultimo: l’immagine è quella di un juge d’appui du contrat (Ancel, Fauvarque-Cosson, Il nuovo diritto francese dei contratti, cit., p. 96). Questa perimetrazione dell’eteronomia per via giudiziale garantisce agli occhi degli autori, per un verso, la necessaria capacità del diritto dei contratti francese di contrastare gli squilibri contrattuali contrari alla buona fede e di favorire l’adattamento dei contratti a lungo termine ai mutamenti rilevanti di contesto e, per altro verso, l’attrattività del diritto francese anche per gli operatori stranieri, grazie al vantaggio competitivo rappresentato dalla possibilità di attingere a un’ampia disciplina dispositiva, moderna e duttile, in grado di esonerare la parti dalla pratica di redigere testi contrattuali lunghi e dettagliati, diffusa nel mondo degli affari su influsso del modello di common law.

Sempre nella prospettiva dell’accessibilità del profano al nuovo diritto dei contratti va letto il dibattito, molto interessante, sulla nozione di contratto, consacrata infine nell’art. 1101 Code civil (Ancel, Fauvarque-Cosson, Il nuovo diritto francese dei contratti, cit., p. 101 ss.). La discussione si è incentrata sull’ampiezza della nozione e sull’ancoraggio o meno del contratto all’obbligazione, iscritto nella tradizione francese. Alla fine, ha prevalso la posizione di chi auspicava una nozione non troppo ampia e teoretica, sganciata da nozioni poco definite e difficilmente comprensibili dal fruitore medio, come quella di effetto giuridico. Ecco allora che la formulazione dell’art. 1101 ha puntato sul concetto di accordo di volontà, piuttosto che presentare il contratto come una specie della più ampia categoria di convention o di act juridique, e ha ribadito il connubio con l’obbligazione, abbandonando però la tripartizione in obbligazioni di dare, di fare e di non fare, tacciata in dottrina di descrittivismo: «Le contrat est un accord de volontés entre deux ou plusieurs personnes destiné à créer, modifier, transmettre ou éteindre des obligations». È evidente a qualunque studioso del contratto che la definizione non è puntuale sul piano tecnico, perché essa trascura gli effetti contrattuali attributivi di natura non obbligatoria, come l’effetto reale o l’effetto di garanzia pura. Di tanto sono ovviamente consapevoli anche gli studiosi francesi, ma la preferenza è caduta sulla comprensibilità della nozione di contratto agli occhi del fruitore non giurista. Ed è una scelta che dovrebbe fare riflettere, perché esprime la ferma convinzione che il diritto – o per lo meno quello generale – non sia affare per giuristi né prevalentemente strumento per l’esercizio del potere, ma un portentoso dispositivo di coesistenza sociale, che poggia, però, sulla possibilità per chiunque di accedere alle regole e comprenderne, anche solo per sommi capi, il nucleo regolativo.

Il contratto, peraltro definito in senso restrittivo per esigenze di volgarizzazione, non rappresenta l’atto di autonomia privata per antonomasia, destinato a spazzare via il riferimento a categorie più generali, come quella di negozio giuridico, sul modello del codice civile italiano. La scelta di mantenere una norma sulle fonti delle obbligazioni, anche se di carattere più classificatorio che operativo, ha indotto il legislatore francese a riprodurre la tripartizione in atti, fatti e legge (art. 1100). E l’art. 1100-1 offre all’act juridique quella ribalta negatagli dal codice civile italiano, con le note ripercussioni nel dibattito scientifico relative alla legittimità o meno di conservare la figura del negozio giuridico alla luce del suo ripudio legislativo: «Les actes juridiques sont des manifestations de volonté destinées à produire des effets de droit. Ils peuvent être conventionnels ou unilatéraux. Ils obéissent, en tant que de raison, pour leur validité et leurs effets, aux règles qui gouvernent les contrats».

Le questioni massimamente generali, come quelle appena illustrate, non hanno distolto il legislatore della riforma dalla necessità di conferire al nuovo diritto dei contratti una veste complessiva in grado di aderire con maggiore precisione all’evoluzione delle forme che il contratto va assumendo nel mercato. Da qui l’introduzione della dicotomia tra contratti de gré à gré, ossia liberamente negoziati, e contratti per adesione (art. 1110). La distinzione appare a A&F-C come la nuova summa divisio del diritto generale del contratto, in quanto capace di esprimere due manifestazioni dell’autonomia privata che pongono questioni radicalmente diverse: perché un conto è negoziare il contenuto del contratto e un conto è accondiscendere a un regolamento che non può essere modificato, in quanto espressione dell’unilaterale potere regolativo di controparte e, dunque, prodotto di una disparità di forza negoziale. Da qui il diverso peso da riconoscere al controllo giudiziale, al quale si è accennato in precedenza. La presa d’atto di una diversità qualitativa tra l’autonomia privata che forgia il contenuto del contratto e l’autonomia che, invece, si limita ad aderire a un regolamento soltanto da controparte predisponibile potrebbe alimentare pulsioni a rompere l’unitarietà del diritto generale del contratto. Sulle scia di Thierry Revet (Une philosophie gérérale?, in La réforme du droit des contrats, quelles innovations?, in RDC, 2016, hors-série, p. 5), A&F-C ritengono di non dover escludere che «il giudice sia incline a valutare in maniera differente il carattere dispositivo di una regola a seconda che si trovi di fronte ad un contratto liberamente negoziato oppure a un contratto di adesione, e che sia più rigoroso nel determinare il carattere dispositivo di una regola di diritto generale, alla quale si è derogato, nel caso in cui si tratti di una clausola inserita in un contratto di adesione, in quanto sottratto alla negoziazione delle parti» (Ancel, Fauvarque-Cosson, Il nuovo diritto francese dei contratti, cit., p. 110) La cautela con la quale è formulata questa proposta ricostruttiva è assai apprezzabile, ma, nonostante tutto, non è questa la via corretta per valorizzare la distinzione tra contrats de gré à gré e contrats d’adhésion. La norma è dispositiva o imperativa per valutazione generale, che non può dunque variare da caso a caso e, per di più, sulla scorta di un apprezzamento del giudice. Ciò che può essere con un qualche fondamento prospettato è che, nei contratti non negoziabili, se una o più clausole si rivelano abusive per la loro intrinseca attitudine a determinare uno squilibrio, e non certo perché derogano al diritto dispositivo, il giudice possa creare delle lacune mirate nel regolamento contrattuale da colmare con il diritto dispositivo, proprio in quanto espressivo di una razionalità e di un equilibrio tra gli interessi contrapposti connaturati anche ai contratti per adesione.

Fabrizio Piraino


Carlo Angelici, Sul «contratto» di borsa, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2021, pp. XVI-243.

1. Le motivazioni della ricerca, enunciate da C.A. già nella Presentazione del volume, stanno nella sua dichiarata insoddisfazione per la traiettoria seguita da certa dottrina commercialistica italiana che, confinandosi in ambiti tecnici e specialistici, si è allontanata dall’area delle obbligazioni e dei contratti, dove invece potrebbe fornire contributi originali per la scienza del diritto privato. Da parte mia, non voglio certo entrare nel merito di scelte che appartengono per intero alla sfera di libertà scientifica dei giuscommercialisti. Da civilista ritengo però sia profondamente vero che lo studioso del diritto commerciale possa aiutare a comprendere e costruire il sistema privatistico, e credo che questo lavoro di Carlo Angelici ne sia la dimostrazione. È lavoro la cui chiave sta invero nella creazione di un ponte tra i due fields of study, ponte le cui fondamenta sono gettate sin dalla iniziale avvertenza di come le ragioni per cui la borsa rappresenta per l’economista una sorta di archetipo del mercato costituiscano, allo stesso tempo, le ragioni per cui rispetto alla borsa non è agevole utilizzare gli archetipi del diritto privato, e specificamente il contratto.

2. La riflessione evidenzia, nella sua prima parte, alcune caratteristiche fondamentali del mercato di borsa, evidentemente ritenute da C.A. le più significative non solo nella ricostruzione dell’operazione di scambio che in esso avviene, ma soprattutto nella prospettiva del raffronto con il paradigma contrattuale.

Si parla, fondamentalmente, di prezzo, di anonimato, e di controparte centrale.

Primo elemento è dunque il prezzo, rispetto al quale il dato significativo è ravvisato nel fatto che nella operazione di borsa esso non è – come nel contratto – frutto della razionalità individuale dell’individuo che sottoponga a valutazione propri interessi personali, in un modo destinato a tradursi nella formazione della regola negoziale di cui il prezzo è oggetto. Al contrario, nelle operazioni di borsa il prezzo si forma per intero sul mercato, in base a sue regole e a suoi meccanismi; e il prezzo così oggettivamente determinato individua i contratti che in base a esso possono concludersi (p. 7 s.). Viene così enunciato un filo rosso dell’indagine, cioè la dimensione oggettiva – o meglio non interindividuale – del mercato e delle operazioni che in esso si realizzano, un filo rosso qui segnalato dal fatto che il termine contratto è in queste prime pagine virgolettato, per ragioni che diverranno chiare nel corso della ricerca. L’oggettività attiene, si diceva, anche al prezzo, che è risultato di quel processo collettivo e procedimentalizzato nel quale consiste la negoziazione sui mercati regolamentati (uso il termine negoziazione riferendomi non già a una dimensione negoziale della vicenda, ma a una accezione derivata dalla disciplina dei servizi di investimento).

Secondo elemento su cui C.A. ferma l’attenzione è l’anonimato delle operazioni di borsa (p. 18 ss.). Esse sono infatti caratterizzate da reciproche impersonalità. L’impersonalità è dovuta a ragioni di riservatezza proconcorrenziali, ma soprattutto alla esigenza di isolare le operazioni di borsa da contatti interindividuali, riservati a casi marginali di inefficienza del mercato.

L’anonimato soggettivo, e si giunge così al terzo dato significativo (p. 27 ss.), esige una struttura che garantisca l’impersonalità, la quale è la controparte centrale, imposta nel mercato di borsa in ragione del fatto che l’anonimato dell’operazione genera un incontrollabile rischio di controparte. La controparte centrale elide quel rischio, cosa che però, allo stesso tempo, genera l’esigenza di proteggere la stessa controparte centrale dal rischio di controparte che essa corre rispetto a ciascuno dei suoi interlocutori, esigenza questa che trova soluzione nelle regole sulla abilitazione degli intermediari. Discende da questi tratti sistematici il fatto che l’operatore di borsa può concentrarsi sul solo rischio di mercato, rispetto al quale la controparte centrale è invece indifferente, e ne discende soprattutto l’idea (p. 36) della controparte centrale come elemento della infrastruttura del mercato di borsa.

Tenendo presenti questi tre elementi per così dire strutturali del mercato di borsa, l’analisi si sposta poi sull’operazione che si svolge in esso. Di essa C.A. evidenzia il carattere multifasico, consistente in una catena di rapporti che legano soggetti i quali rivestono ruoli diversi, con una articolazione di “mestieri” che, pur presente in ogni mercato evoluto, è particolarmente marcata nella borsa (p. 39). Proprio in questa scomposizione della vicenda nella quale consiste l’operazione di borsa appare, nella riflessione di C.A., la prima ragione per segnalare la difficile utilizzabilità dei paradigmi concettuali del giurista, che in qualche modo evaporano nella neutralità della borsa, dove le operazioni si articolano in singole fasi isolate tra loro, le quali coinvolgono parti separate da soggetti interposti, il tutto in una complessiva oggettivizzazione della vicenda.

La prevalenza dell’interesse oggettivo del mercato si riflette poi sulla disciplina dell’illecito (p. 55 ss.), ma più ancora, mi pare, questa disciplina è interessata dalla dimensione impersonale del mercato stesso, dove la tutela individuale deve essere affidata a rimedi (indagati in una prospettiva comparatistica che tiene conto delle differenze tra sistemi tipici e sistemi atipici di responsabilità aquiliana) attivati nel caso in cui si verifichino alterazioni del mercato che le regole violate (tipicamente quelle che impongono doveri informativi) vogliono impedire. La dimensione collettiva si ripete; viene adombrato un rimedio paragonabile all’actio de dolo, e – con un’analisi estesa alle esperienze angloamericana e tedesca – viene affrontato il delicato tema della possibile reazione contro l’astensione dall’operazione provocata dal fatto illecito, tema che genera l’evidente quesito della determinazione dell’oggetto dell’obbligazione risarcitoria.

3. Dopo aver tratteggiato i dati caratteristici del mercato di borsa, l’indagine di C.A. affronta, alla luce dei risultati ottenuti, il tema più strettamente privatistico, in un secondo capitolo non a caso intitolato “Microstrutture e negoziazioni”.

Ancora nella prospettiva del mercato, in premessa sono fissati due caratteri fondamentali dell’ordine di borsa. In un primo senso, la vicenda è non semplicemente spersonalizzata e massificata, ma lo è in modo necessario. Il carattere della spersonalizzazione diventa cioè addirittura tipologico per l’operazione di borsa (p. 86). In un secondo senso, la vicenda è connotata dalla sua dimensione collettiva, particolarmente evidente nel mercato secondario (dove mai c’è un rapporto face to face), dimensione nella quale ogni rapporto è mediato dal mercato (il cui gestore offre non solo una struttura, ma anche le relative regole) e dal prezzo ivi oggettivamente formatosi (p. 89). In definitiva, l’ordine di borsa, a contenuto rigorosamente tipizzato, è mezzo di partecipazione alla produzione di quell’esito collettivo che è il prezzo (p. 96).

Passando poi alla prospettiva del contratto, viene subito enunciata una percezione personale di C.A. del relativo paradigma, che assomma nella notazione di come in questo momento storico il ruolo del contratto incontri tutta una serie di incertezze (p. 96). La notazione consente a C.A. di fissare alcuni punti fermi. Innanzi tutto, viene evidenziata la circostanza che sul piano empirico gli effetti ultimi dell’ordine di borsa corrispondono a quelli derivanti da uno scambio contrattuale, cosa che gli consente di tracciare un parallelismo con le Leistungsbeziehungen des Massenverkehrs. Si aggiunge poi la constatazione di come sia ormai acquisita alla riflessione scientifica la idea della esistenza di una pluralità di procedimenti di conclusione del contratto lasciati, in parte consistente, a scelte autonome delle parti. Appaiono così due termini fondamentali dell’indagine di C.A.: la vicenda effettuale, paragonabile a quella contrattuale (ma si vedrà come anche questo aspetto deve essere in qualche modo revisionato), si innesta su di una vicenda genetica da cogliere nei suoi diversi segmenti. Questo genera la necessità di analizzare i meccanismi di matching tra ordini di borsa contrapposti, analisi la quale, va però detto, deliberatamente trascura di approfondire, come forse meriterebbe, il tema di quale possa essere la rilevanza dei meccanismi informatici nella costruzione dei rapporti di borsa (p. 118 ss.). Sul punto, la disamina si rivolge ai due sistemi rispettivamente delle aste e di negoziazione continua (con l’opportuna avvertenza che anche quest’ultimo è poi in realtà connotato da un’asta di apertura e un’asta di chiusura: p. 123).

Detto che il sistema delle aste risolve problemi di liquidità grazie al meccanismo di aggregazione degli ordini, sacrificando a esso la celerità degli scambi, C.A. si sofferma sulle modalità di definizione del prezzo unico. Questo del prezzo unico, osserva C.A., è il “centro di gravità” del sistema delle aste, un prezzo costantemente aggiornato alla luce degli ordini immessi nel sistema, con un prezzo teorico di equilibrio che in chiusura di sessione diventa (purché collocato entro un corridoio prefissato) il prezzo collettivo, quello che consente il numero maggiore di scambi e quindi ne determina la perfezione (p. 132). Di questo sistema viene evidenziata la difficile (o, secondo C.A., impossibile) riconduzione a un concetto interindividuale di accordo contrattuale. In particolare, si ritiene poco plausibile sia una ricostruzione in termini di Zustimmungstechnick, che scinda l’operazione in un momento consistente nell’accettazione delle regole del mercato accompagnato dal successivo matching; sia la diversa ricostruzione che si ispira al modello delle Kreuzofferten. Rispetto a questo secondo modello, C.A. ravvisa la assenza della necessaria proposta indirizzata, rispetto all’altro constata invece non risolva il problema costruttivo, assommando alla proclamazione che il contratto è concluso con modalità diverse da quelle consuete perché così dispongono le norme applicabili (p. 138 s.). Non posso nascondere qualche perplessità su entrambi questi passaggi: rispetto all’idea delle offerte incrociate, non vedo particolare ostacolo nel fatto che esse, in ipotesi, non siano indirizzate. Non lo esigono infatti né la tesi secondo la quale ogni proposta contiene l’accettazione di una proposta uguale e di direzione opposta (K.H. Neumayer, Vertragsschluβ durch Kreuzofferten, in Festschirift O. Riese, Karlsruhe, 1964, p. 309 ss.), né la tesi – che tutto sommato mi pare preferibile – secondo la quale in definitiva la questione trova soluzione in ragione del codice linguistico utilizzato: se nel mercato regolamentato esistono solo dichiarazioni che le regole del mercato denomina tutte “offerte”, la conclusione del contratto non può che derivare dall’incrocio tra offerte. Il che porta al secondo argomento critico avanzato da C.A. Anche qui, sostenere che il contratto è concluso con modalità diverse da quelle consuete perché così dispongono le norme applicabili non mi sembra affatto eludere il problema costruttivo, ma anzi risolverlo, solo a ricordare come il concetto di accordo contrattuale sia normativo, nel senso che un accordo c’è se sussiste la serie di comportamenti cui la legge, secondo criteri convenzionali, riconduce la conclusione dell’accordo (E. Roppo, voce Contratto: I) formazione del contratto – dir. civ., in Enc. giur., IX, Roma, 1988, p. 1 ss.). Forse più pertinente è allora il rilievo conclusivo di come in entrambe le citate soluzioni interpretative si perde l’aspetto collettivo del fenomeno, che dovrebbe invece essere rispecchiato dall’ipotesi ricostruttiva (p. 141). È aspetto identificato nel confluire dell’ordine singolo all’interno della complessiva domanda od offerta, alla dimensione collettiva della quale contribuisce, per poi trovare esecuzione sulla base degli accoppiamenti determinati dal prezzo definitivo, senza che mai ci sia un momento di contatto bilaterale. L’ordine è strumento mediante il quale si assume una posizione sul mercato, senza che mai ci sia la intersoggettività tipica della relazione contrattuale, contribuendo alla costruzione di due masse, di domanda e di offerta, mediante atti che C.A. ritiene plausibile qualificare come unilaterali (p. 146).

Passando alla negoziazione continua, e constatato come a essa sia necessaria una sufficiente liquidità, se ne evidenziano le sole due fasi che la compongono, e cioè quella pre-matching, con offerte modificabili, e quella post-matching, che determina la eseguibilità delle operazioni concluse (p. 152). La maggiore vicinanza allo schema contrattuale, riconosciuta da C.A., non cancella però, a suo modo di vedere, la centralità del profilo collettivo, di formazione delle masse oggetto dello scambio, con la conseguente riconduzione del fenomeno fuori dall’area del contratto ed entro l’idea del processo collettivo e della assunzione di una posizione nel mercato. Peraltro, questa centralità del profilo collettivo è qui dichiaratamente una valutazione personale di C.A. (pp. 154 e 155), rispetto alla quale l’autore osserva che la sua preferenza si collega alla inesistenza dei problemi che sono tipici della dimensione interindividuale del contratto: e in ciò si rispecchia una sua precisa scelta metodologica, che verrà esplicitata più avanti, quella cioè di cercare soluzioni per singoli snodi problematici lasciando sullo sfondo i temi ricostruttivi generali.

L’indagine approda a questo punto alla patologia, piano sul quale viene ulteriormente evidenziata la diversità rispetto al trattamento dei rapporti contrattuali, nel senso che le relative controversie, che possono concepirsi nel rapporto cliente/negoziatore o comunque al di fuori della borsa, non incidono mai sulla stabilità della negoziazione, a conferma del fatto che essa è effetto della assunzione di una posizione sul mercato, a sua volta esito della partecipazione a un processo collettivo, soltanto nell’ambito del quale può postularsi una tutela individuale (p. 168).

Nell’ultimo capitolo, l’indagine approda al profilo effettuale, del quale si rimarca come, a prima vista, esso non appaia del tutto diverso da quanto sarebbe derivato da una normale fattispecie contrattuale (cosa che consente di evocare l’esperienza teorica dei Faktische Vertragsverhältnisse). La circostanza viene però posta a raffronto con la strutturazione della operazione, descritta con la metafora della piramide i cui pendii sarebbero le due legs of transaction, la prima in cui l’investitore avvia singolarmente l’operazione, che provoca l’intervento dell’intermediario abilitato, il quale inserisce gli ordini nel sistema, a comporre le masse che si confrontano sul mercato; realizzato l’equilibrio, l’ordine a esso coerente può essere eseguito tramite il servizio di un ulteriore intermediario che intrattiene rapporti con il titolare delle funzioni di clearing, all’esito delle quali si formano i saldi sulla base dei quali si avvia il processo inverso, lungo la seconda leg, di scomposizione delle masse fino a far pervenire al singolo investitore i prodotti o il controvalore a lui spettanti (p. 181). La struttura appare procedimentalizzata, con un vertice rappresentato da controparte centrale o stanza di compensazione visti come erogatori di un servizio; e di questa struttura vengono criticate – credo giustamente, data una certa artificiosità delle tesi – le ricostruzioni che si avvalgono di schemi (quali la rappresentanza) che sono eccentrici rispetto al fenomeno concreto (p. 189).

Il volume giunge a conclusione con una disamina del fenomeno traslativo, esito ultimo dell’operazione di borsa, di cui viene scandagliata la articolazione in una prospettiva metodologica (quella già annunciata) che vuole tenere separate lump concepts e narrow issues per concentrarsi su questi ultimi, in una disamina del fenomeno circolatorio depurata da ogni criterio unificante e attenta alla individuazione della soluzione specifica più adeguata (p. 204). Per la verità, da questa enunciazione di metodo l’indagine sembra in qualche modo scostarsi quando il fenomeno circolatorio, attento soprattutto alle implicazioni della dematerializzazione dei titoli, viene affrontato nell’ottica della circolazione proprietaria, sia a domino (p. 193 ss.), sia a non domino (p. 219 ss.), ottica che consente di evidenziare anche sotto questo profilo le peculiarità della borsa, dove la esecuzione degli ordini definisce la posizione finale sul mercato del cliente, ottenuta in chiusura di una serie di situazioni intermedie e strumentali le quali sono funzionali al funzionamento del mercato stesso e alla efficienza della negoziazione. L’ottica proprietaria è probabilmente debitrice della tradizione culturale che affonda le radici nella circolazione cartolare, ma è forse ultronea rispetto a esigenze circolatorie le quali non sono inscindibilmente connesse alla traslazione di diritti dominicali.

4. In sintesi, credo non sia dubbio che questo volume di C.A. rappresenti un contributo imprescindibile per la comprensione giuridica di operazioni di scambio assai peculiari. La borsa e le relative operazioni sono infatti fenomeni i quali tendono – come dice l’autore – a isolarsi nella dinamica del loro funzionamento. E tuttavia, se la cosa risponde a esigenze di efficienza e stabilità del tutto comprensibili e condivisibili, forse è invece meno utile nella prospettiva della sua esplorazione giudica. Per questo l’indagine di C.A., che colloca il fenomeno nelle coordinate ordinamentali, è preziosa. Di essa vorrei sottolineare una caratteristica, che si può riassumere nel ripetuto utilizzo del termine “impressionista”, in relazione al quale C.A. esprime una propria propensione a ravvisare una maggiore somiglianza tra operazioni di borsa e procedimenti deliberativi di enti collettivi (voto, conferimento) che non tra operazione di borsa e contratto. La “impressione” di C.A. è ovviamente tutt’altro che ingiustificata, basata com’è su di una raccolta critica e analitica di dati esperienziali indiscutibili. Personalmente, faccio tuttavia fatica a staccarmi dall’idea che il soggetto, il quale voglia investire oppure disinvestire, sia persona la quale pensa, dice e scrive che vuole comprare o vendere. La sua decisione è cioè la tipica decisione di contrattare; e se quello che ne esce non fosse un contratto, forse c’è un problema di (in)coerenza tra scelta ed effetto della scelta. D’altro canto, anonimato e spersonalizzazione debbono fare i conti con il fatto che il dogma della bilateralità nella contrattazione è da tempo denunciato (R. Sacco, Il contratto, I, nel Trattato dir. civ., diretto da R. Sacco, Torino, 1993, p. 38), e che la esistenza di contratti o rapporti contrattuali senza contatti individualizzati non è certo estranea al sistema (si pensi ai meccanismi di blockchain oppure a certi scambi possibili su piattaforme di sharing economy).

Il discorso porterebbe assai lontano, e deve essere chiuso. Lo faccio confessando come la sola sua enunciazione mi consenta di cogliere due cose.

La prima è che queste mie ultime considerazioni allontanano non poco dalla visuale ristretta alla borsa e alle sue caratteristiche. Ma la prospettiva di C.A. è la borsa, e non ha senso mettere in discussione la scelta di cosa l’autore non abbia voluto occuparsi (altri mercati, e il rapporto del paradigma contrattuale con il funzionamento di altri mercati).

La seconda cosa sta nel fatto che anche questa mia tendenza a spostare e allargare la prospettiva ha in definitiva essa pure un sapore “impressionistico”.

E allora la considerazione finale è molto semplicemente l’enunciazione di una sincera ammirazione di un impressionista verso un altro impressionista. In fin dei conti, Le déjeuner sur l’herbe di Édouard Manet piaceva molto a Paul Cézanne, e allora non c’è da stupirsi che, fatte le debite proporzioni (naturalmente dal lato di Cézanne), il civilista possa molto apprezzare il lavoro del grande commercialista.

Marcello Maggiolo


Claudia Irti, Consenso “negoziato” e circolazione dei dati personali, Giappichelli, Torino, 2021, pp. 204.

Il volume di Claudia Irti affronta l’esplorazione delle nuove frontiere dei diritti della personalità, nell’era postmoderna del digitale. I problemi, oggi, non sono più quelli delle origini; la sofferenza dei diritti della persona non nasce solo dai mezzi di comunicazione di massa [per intenderci: caso Soraya, identità personale, reputazione, nello stile anni Settanta/Ottanta], bensì si colloca nel contesto della Rete, del commercio elettronico, dell’uso delle applicazioni, dell’era digitale e globale.

Non si tratta, cioè, di proteggere la rappresentazione pubblica dell’individuo o la sua intangibilità dalle intromissioni esterne; la Rete, infatti, non domina più solo le nostre comunicazioni, ma è sovrana, in un certo modo, delle nostre stesse vite. Oggi gran parte dell’esistenza individuale è e si svolge on line, un dato sociale e tecnico da cui il diritto, se vuole mantenere la sua funzione regolatoria, non può prescindere, se non abdicando al proprio ruolo a favore di un dominio indiscriminato della tecnica e della forza economica degli operatori. Col che il diritto cesserebbe di essere tale, cedendo alla forza del nudo dominio.

Se c’è un settore del diritto privato nel quale il Codice civile non è solo vecchio ma stravecchio è proprio quello dei diritti della persona; il libro di Claudia Irti ne è prova limpida, nella misura in cui per risolvere il problema del consenso negoziato deve fare i conti con le fonti europee, con le determinazioni delle Autorità indipendenti, con la giurisprudenza, con le tesi degli interpreti, ma poco, o pochissimo, col Codice civile e le sue regole, oggi apparentemente così lontane da questi nuovi fenomeni.

Il Codice civile è assente, è vero; ma non è assente il diritto civile, le sue categorie, il suo metodo e questo volume ne è una efficace dimostrazione.

Nel libro si affronta il tema del «dato personale», sintagma che sembra assorbire, oggi, ogni profilo di protezione della persona e dei suoi diritti; il dato non è, si chiarisce, un bene commerciabile, se non dopo e a seguito del trattamento (autorizzato) che ne fa il professionista; il dato trattato è un quid di diverso dal dato personale in sé, quest’ultimo rimanendo un attributo della persona.

Se il dato personale non è un bene, come se ne può conciliare la natura con l’inserimento del consenso al suo trattamento in un’operazione economica di scambio?

Il tema ha a che fare con l’autonomia privata e con i suoi limiti; l’autonomia di chi presta il consenso, per ottenere un servizio; l’autonomia di chi riceve il consenso offrendo in cambio un servizio e ottenendo così un bene commerciabile di cui fa uso a scopo di profitto. Ed è qui che, per risolvere il problema, il diritto civile torna ad assolvere al suo ruolo, con il suo metodo e con le sue categorie, vecchie di confezione ma nuove di applicazione.

Se il consenso – lo dice il Garante della Privacy – non può essere condizione per l’accesso a un servizio (perderebbe la propria libertà) e, dunque, non può essere oggetto di un’obbligazione, perché con ciò diventerebbe coercibile e irrevocabile, non è detto che l’operazione economica basato sullo sfruttamento del dato non possa, comunque, essere legittimamente compiuta.

Claudia Irti, infatti, suggerisce di ricorrere alle promesse condizionate a prestazione, laddove il consenso al trattamento del dato personale è presupposto necessario per ottenere il servizio ma senza diventare prestazione oggetto di obbligazione. Il consenso, dunque, mantiene il suo carattere personalistico, la sua revocabilità; questo comporta che, giustamente, la proposta del professionista è perfetta nel momento in cui è comunicata, salvo rifiuto consistente nel mancato consenso all’utilizzo del dato personale (art. 1333 c.c.). Lo schema dell’art. 1333 c.c. – da sempre al confine tra contratto e promesse – sembra conciliabile con la libertà dell’oblato di non porre in essere un presupposto della promessa di controparte, ma, con ciò, rifiutandone il contenuto. Il titolare del dato non è contrattualmente obbligato a prestare il consenso, ma se non lo presta, o lo revoca successivamente, rifiuta l’offerta o fa sospendere l’erogazione del servizio ex art. 1460 c.c., Insomma, l’operazione economica si salva – così come l’affidamento del professionista sulla stabilità del consenso – ma la natura personalistica del diritto sui dati personali mantiene la sua originale purezza, coerente con la disciplina speciale e inderogabile che ne protegge la delicatezza. Non si tratta di operazioni gratuite, proprio perché il pagamento è rappresentato dalla prestazione del consenso; da qui le giuste considerazioni in ordine al trattamento delle pubblicità commerciali che presentino come «gratuita» un’offerta, nei fatti, onerosa, in ragione dello scambio tra il servizio e il consenso al trattamento del dato personale (determinandosi così un difetto di conformità o una prassi commerciale scorretta).

Insomma il dato personale circola, si può inserire in rapporti sinallagmatici, può diventare un bene commerciabile, ma tutto sotto il controllo della disciplina speciale che ne salvaguarda la natura personalistica.

Il libro di Claudia Irti è un ulteriore prova che le categorie del contratto sono vive e utili, proprio per la loro estrema adattabilità anche a fenomeni del tutto nuovi e totalmente slegati dal contesto in cui queste categorie hanno originariamente svolto il loro ruolo.

Se è vero che il Codice civile sembra arretrare, almeno in questi contesti, non è parimenti vero che le numerose discipline speciali, europee o nazionali, bastino a risolvere tutti i problemi e, anzi, proprio per la loro estrema complessità rischiano spesso di parlare l’arido linguaggio dei regolamenti freddi e burocratici.

Questo libro, invece, dimostra che la soluzione del problema può essere affidata, tranquillamente, a schemi, ragionamenti e metodi del diritto civile classico; la crisi delle categorie, insomma, è una favola buona per chi ha poca voglia di lavorare sui e coi concetti tradizionali, grazie ai quali il diritto civile non viene riposto in armadi polverosi (in cui qualcuno vorrebbe riporlo), ma vive pienamente la sua dimensione di scienza pratica.

Alberto Maria Benedetti


Tereza Pertot, L’inadempimento anticipato. Dalla tutela manutentiva ai rimedi risolutori, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2021, pp. 464.

1. Tereza Pertot firma questo bel volume sul tema dell’inadempimento anticipato, edito da Edizioni Scientifiche Italiane nella Collana prestigiosa degli “Studi di diritto privato”. Il volume assai ampio – che si dipana in quattro capitoli, il secondo e il terzo a loro volta sono suddivisi in due sezioni – porta a compimento una profonda ricerca i cui primi risultati si trovano editi nel saggio Inadempimento anticipato fra realtà italiana e prospettiva europea, in Rass. dir. civ., 2018, p. 956 ss.

Andando immediatamente verso il cuore della questione, l’A. precisa sin dalle prime pagine il problema da indagare, insito nella valutazione degli strumenti a disposizione del contraente fedele per contrastare gli effetti pregiudizievoli di una rottura dell’accordo: in particolare, si tratta di capire se egli possa avvalersi, a tale fine, dei soli rimedi a carattere conservativo, normalmente concessi a chi sia titolare di una situazione di aspettativa, ovvero se gli sia anche consentito sciogliere il rapporto, solo che vi sia un elevato pericolo di una sua prossima violazione (p. 16).

Orbene, la nostra A. – utilizzando un approccio comparatistico ineludibile vista la natura del tema, ove si apprezza la profonda conoscenza della letteratura inglese e americana – sottolinea che l’anticipatory breach of contract ha fatto la sua prima apparizione nell’elaborazione giurisprudenziale delle Corti inglesi (p. 19), ove lo scioglimento anticipato del contratto era ammesso solo qualora uno dei contraenti si fosse posto, medio tempore, nella condizione di non potere più adempiere alla scadenza prestabilita. Sottolinea l’A. che la categoria concettuale della violazione contrattuale anticipata è in grado, oggi, di assorbire, tanto le ipotesi di inadempimento anticipato derivante da una dichiarazione espressa di non voler adempiere, quanto quelle di mancata volontà di dare attuazione al contratto, desumibile implicitamente da un comportamento della parte contrattuale infedele (p. 22). L’anticipata risolubilità del contratto corrisponderebbe alla necessità di evitare quell’inutile dispiegamento di risorse che si avrebbe, obbligando una delle parti ad insistere in un rapporto oramai inidoneo a soddisfarne le aspettative (p. 25). Si tratterebbe di una regola dotata di notevole forza espansiva. Già alcuni anni addietro la dottrina italiana aveva ritenuto di attribuire una limitata rilevanza al rifiuto di adempiere, qualificandolo alla stregua di un’implicita istanza risolutoria: se accettata, quest’ultima darebbe luogo ad uno scioglimento del vincolo per mutuo consenso dissenso) delle parti (l’A. richiama a p. 29, nota 45, M. Dellacasa, Inadempimento prima del termine, eccezioni dilatorie, risoluzione anticipata, in Riv. dir. priv., 2007, p. 564).

Nei sistemi continentali, la previsione dell’inadempimento anticipato fra i presupposti della risoluzione (per atto unilaterale) del contratto, avvenuta di recente in taluni Paesi europei, è finora mancata, e ciò per lo più, in quegli ordinamenti, nei quali il principio pacta sunt servanda è tradizionalmente espresso in termini più rigidi. Così è, ad esempio, in Italia, dove la lettera dell’art. 1372 c.c. parrebbe appunto spiegare la propensione del sistema e, soprattutto, del giurista che vi opera a preferire strumenti rimediali di natura conservativa; o in Francia, ove è estranea la regola dell’anticipata risolubilità del contratto (p. 49). In Germania, il § 241, c. 1, BGB non attribuisce poi al creditore neppure la possibilità di scegliere tra adempimento e risarcimento, costituendo il primo oggetto di una legittima pretesa del debitore (p. 53). Sottolinea allora l’A. che l’esigenza di accordare adeguati mezzi di reazione alla parte fedele, la quale abbia ragione di temere il futuro inadempimento di controparte, è emersa in maniera preponderante in occasione delle recenti crisi, economiche, finanziarie, da ultimo anche sanitarie. Essa tende poi, oggi, ad acquisire nuova linfa contestualmente alla progressiva valorizzazione di princìpi di rango costituzionale, a partire da quello dell’effettività della tutela (v., ad esempio, art. 24 Cost.), enunciato pure nell’art. 47 della Carta di Nizza (p. 58).

2. L’A. ad inizio del secondo capitolo sottolinea come l’esigenza di codificazione della disciplina sull’inadempimento anticipato trovi ulteriore e fondamentale impulso negli sviluppi del diritto di matrice sovranazionale (p. 71). Fra gli strumenti di diritto uniforme che più hanno influenzato lo sviluppo delle normative europee, ruolo centrale sotto questo profilo assume la Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale di beni mobili (CISG). Ai sensi della legge uniforme, il contraente in bonis dispone, per cominciare, dello strumento dilatorio ex art. 71 CISG. La funzione del rimedio di carattere preventivo sarebbe duplice: anzitutto, esso mira ad evitare al contraente, il quale tema di non conseguire la controprestazione promessagli, un inutile spreco delle proprie risorse; inoltre, la sospensione funge da incentivo all’adempimento, spingendo la controparte ad attivarsi per soddisfare l’interesse creditorio e potere, quindi, esigere quanto dovutole in cambio. L’A. sottolinea l’ampiezza della previsione normativa contenuta nella legge uniforme, la quale presenta sicuramente forti analogie con la regola dettata dall’art. 1461 c.c. italiano, ma è destinata a trovare applicazione anche in ipotesi non espressamente contemplate dalla disposizione italiana (p. 77). Emerge un’attitudine espansiva del rimedio dilatorio, il quale è passato dall’essere strumento esperibile contro il solo mutamento in peius delle condizioni economiche delle parti a mezzo di tutela attivabile anche nelle altre ipotesi, dove sia dato riscontrare un’incapacità debitoria (p. 80). Un meccanismo simile a quello proposto nei corpi normativi di diritto uniforme si ritrova nell’attuale formulazione del § 321, c. 2, BGB: la disposizione ha il suo modello nell’art. 71 CISG, ma, a differenza di quest’ultimo, consente alla parte, la quale abbia sospeso l’esecuzione della prestazione, di sciogliere il contratto, se l’altro contraente non provveda ad adempiere o a prestare adeguate garanzie entro un congruo termine (§ 321, c. 2, BGB).

Le disposizioni dedicate alla figura dell’inadempimento anticipato contenute nella CISG sarebbero di particolare interesse sia per l’elevato livello di elaborazione delle soluzioni dalle medesime offerte, sia per la loro immediata operatività negli ordinamenti – compreso quello italiano – che hanno provveduto a darvi esecuzione (p. 119). Una significativa prova della rilevanza assunta dalla legge uniforme, quale modello di riferimento, è data dall’intervento riformatore tedesco del 2002, in occasione del quale è stata esplicitamente prevista, per ciò che qui maggiormente interessa, la possibilità di risolvere il contratto prima del termine, se sia già evidente il subentro dei presupposti per l’esercizio del Rücktritt (§ 323, c. 4, BGB). Nella sua conformazione attuale, il sistema tedesco dei rimedi contro l’inadempimento è in linea con il modello fornito dai testi di matrice sovranazionale, fondati a loro volta su una nozione onnicomprensiva di violazione contrattuale, la quale rappresenta il perno delle pretese risarcitorie ed il presupposto, nei contratti a prestazioni corrispettive, della dichiarazione di scioglimento del rapporto (p. 140).

3. Si sottolinea nel capitolo terzo (Tutela anticipata della parte contrattuale nel quadro normativo italiano) che in Italia l’esigenza di disciplinare espressamente l’istituto della violazione contrattuale anticipata non è sinora emersa in termini analoghi a quanto avvenuto in alcuni altri sistemi giuridici europei: nel nostro ordinamento difetta un’esplicita e generale disciplina del c.d. inadempimento ante diem e delle relative conseguenze. In particolare, manca una disposizione che riconosca alla parte contrattuale fedele la possibilità di sciogliersi dal vincolo, qualora sia certo che, alla scadenza, subentrerà una violazione del rapporto, tale da legittimare il ricorso al rimedio risolutorio (p. 172). Secondo l’A., l’assenza di disposizioni, corrispondenti a quelle rinvenibili negli ordinamenti stranieri e nelle compilazioni elaborate a livello sovranazionale, non significa che, ai sensi del diritto interno, il contraente sia del tutto sprovvisto di una tutela attivabile in via preventiva o, comunque, anticipata. Il legislatore italiano ha predisposto, infatti, una serie di strumenti, attivabili allorquando sia minacciata l’attuazione del rapporto fra le parti. Nel novero dei mezzi esperibili in via anticipata si collocano, anzitutto, quelli preordinati alla conservazione della garanzia patrimoniale. Per quanto riguarda, nello specifico, gli strumenti diretti a prevenire il futuro inadempimento, preservando la possibilità di soddisfare l’interesse creditorio, menzione merita fra quelli espressamente previsti dal legislatore, il rimedio della decadenza dal beneficio del termine ex art. 1186 c.c. Quanto, poi, ai rimedi sinallagmatici, rilevanza assume, fra quelli diretti a preservare l’attuabilità dello scambio e, quindi, la potenziale realizzazione dell’interesse creditorio, l’eccezione ex art. 1461 c.c., disposizione che attribuisce a ciascuna delle parti di un contratto a prestazioni corrispettive la facoltà di sospendere l’esecuzione della prestazione se, in ragione di un mutamento nelle condizioni patrimoniali dell’altro contraente, sia evidente il pericolo del mancato conseguimento di quella (non ancora) dovuta dalla controparte (p. 175). La legge italiana prevede, inoltre, all’interno della disciplina dedicata ad alcuni tipi contrattuali, la possibilità – per una od entrambe le parti – di provocare lo scioglimento del rapporto in corso, talora addirittura mediante semplice manifestazione di volontà unilaterale (p. 194). Due ulteriori frammenti normativi, fra le disposizioni collocate nell’ambito della disciplina dei singoli tipi contrattuali, che consentono l’anticipata interruzione del rapporto, di centrale importanza sono – sia per il relativo contenuto che per le loro potenziali ricadute sistematiche – anche gli artt. 1662 e 2224 c.c., dettati, rispettivamente, in tema di appalto e di contratto d’opera. Entrambe le disposizioni prevedono lo scioglimento del contratto, quale rimedio a tutela della parte contro il rischio di vedersi costretta ad insistere in un rapporto, in relazione al quale è chiaro che non potrà più esser eseguito conformemente a quanto programmato (p. 235). L’A. ribadisce che lo scioglimento anticipato del contratto è certamente ammissibile, anche nel nostro sistema, quando il rapporto risulti già definitivamente compromesso, nonostante non sia ancora attuale il tempo previsto per la realizzazione del programma negoziale. È quanto accade, precisamente, quando una delle prestazioni sinallagmatiche divenga medio tempore impossibile per causa non imputabile ad alcuna delle parti. Ma lo stesso può dirsi per i casi, dove sia l’obbligato a cagionare l’impossibilità della prestazione promessa: anche in essi risulta certamente esclusa l’attuazione dello scambio, di talché è condivisibile l’affermazione che non avrebbe senso costringere il contraente in bonis a rimanere vincolato ad un rapporto oramai inidoneo a soddisfarne le aspettative (p. 253). Nonostante le resistenze della dottrina, la quale continua a nutrire fondati dubbi sull’idoneità del semplice rifiuto ad integrare un inadempimento, la prevalente giurisprudenza dimostra di attribuire valore giuridico – anche ai fini dell’esperibilità del rimedio risolutorio – all’esternazione, fatta dalla parte debitrice, di non avere intenzione di eseguire la prestazione promessa all’atto della stipula. Dalla lettura delle massime pubblicate emerge, sottolinea l’A., soprattutto, la propensione ad equiparare la dichiarazione, con la quale il debitore comunichi o faccia intendere di non voler eseguire la prestazione, ad un inadempimento vero e proprio, e a concedere, perciò, al relativo destinatario, il diritto di esperire i rimedi concessi dall’ordinamento alla controparte dell’inadempiente (p. 301). La condotta posta in essere dalla parte debitrice nella fase ante diem è stata ritenuta rilevante, talvolta, proprio perché in grado di far emergere l’assenza della sua volontà di adempiere, assumendo così, nella sostanza, i connotati di un rifiuto tacito (p. 306).

4. Riscontrata una violazione attuale, ancorché riferita ad un obbligo diverso da quello principale, alla parte in bonis dev’essere assicurata la possibilità di fare ricorso ai necessari mezzi di difesa. Fra questi rientrano, accanto alla risoluzione del contratto, relegata ad un ruolo meramente residuale e sussidiario, circoscritto ai casi più gravi, anche ulteriori rimedi, diretti a preservare, anzitutto, la possibilità di dare piena attuazione al contratto e di soddisfare così gli interessi delle parti. Al novero degli strumenti a disposizione del contraente in bonis sarebbe riconducibile, secondo taluno, anche l’azione di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. (p. 374). Non si esime l’A. dall’interrogarsi in ordine all’esperibilità, prima della scadenza, anche del rimedio risarcitorio. Secondo la classica concezione dell’anticipatory breach of contract, quello del risarcimento del danno rappresenta, assieme alla risoluzione, il rimedio tipico contro la violazione contrattuale ante diem. Chi intenda svincolarsi dal rapporto, già compromesso o che l’altra parte abbia dichiarato o dimostrato di non voler adempiere, nonostante non sia ancora attuale il tempo previsto per la sua attuazione, può quindi dichiararne lo scioglimento, agendo contestualmente per i damages (p. 398). Ragioni di opportunità (compatibili, per vero, con quelle di economia) suggeriscono all’A. di rinviare la domanda di danno (o quantomeno la concreta liquidazione del pregiudizio) ad un momento successivo rispetto a quello dell’accertamento di un inadempimento c.d. anticipato e/o del conseguente scioglimento contrattuale (p. 429).

5. A conclusione della ricerca, l’A. reputa che l’assenza nel nostro ordinamento di una disciplina generale ed organica sulle conseguenze rimediali di un c.d. inadempimento anticipato non implichi, a ben vedere, l’esclusione di qualsiasi protezione del contraente fedele nella fase di pendenza o prima dello scadere del termine (p. 429). De iure condendo, un intervento del legislatore consentirebbe certamente di risolvere i residui problemi applicativi che l’attuale formulazione delle disposizioni codicistiche pone, contribuendo al raggiungimento di una maggiore certezza del diritto, oltreché alla predisposizione, anche nell’ambito del diritto comune, di un sistema di tutela analogo a quello che va da tempo affermandosi all’interno del diritto della crisi d’impresa. Non appare allora insensata la formulazione di un contributo propositivo circa un possibile intervento di modifica della disciplina italiana, orientato a dare piena attuazione al principio, di rilevanza costituzionale ex art. 24 Cost., di effettività ed efficacia della tutela (p. 435). Il modello cui guardare sarebbe, secondo l’A., quello offerto dal § 321 BGB, che, oltre a presentare un più ampio campo di applicazione rispetto al nostro art. 1461 c.c., tende a collegare i due strumenti di tutela – l’eccezione di sospensione e lo scioglimento anticipato del contratto a seguito della mancata reazione debitoria – sì da agevolare un ingresso graduale del rimedio estintivo-interruttivo. In particolare, nel combinare i due rimedi, dilatorio e risolutorio, la disposizione tedesca si presenta come capace di coniugare le esigenze di conservazione del singolo rapporto con quelle (della velocità e dell’efficienza) dei traffici giuridici (p. 437). Quanto, poi, alla concreta operatività della tutela sinallagmatica ante diem, la soluzione più equilibrata secondo l’A. sarebbe di consentire alla parte fedele di sospendere, anzitutto, l’esecuzione della propria prestazione, fissando all’altra un termine per fornire adeguate garanzie di adempimento e rinviando l’eventuale scioglimento al suo inutile spirare (p. 445).

6. Il volume di Tereza Pertot è indubbiamente propositivo di un pensiero originale. L’Autrice affronta un argomento di confine del nostro diritto delle obbligazioni con metodo equilibrato, ben calibrando il sistema delle fonti domestiche ed europee, mai perdendosi nella dogmatica ma prestando attenzione – cosa che sempre dovrebbe farsi – al dato giurisprudenziale; non già inseguendolo, ma all’opposto tentando di comprenderne il flusso per indirizzarlo. Questo dovrebbe essere d’altronde il compito della dottrina. Aggiungo che il volume, pur ampio, è perspicuo e si legge con piacere. Apprezzabile infine è certamente la cultura comparatistica dell’Autrice.

Cristiano Cicero


Giulio Andreotti, Le metaclausole, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2021.

Tra i patti, che si possono concludere stipulando un contratto, esistono clausole dotate di duplice caratteristica: per un verso, tali clausole presuppongono il contratto cui accedono (accessorietà); per altro verso, esse sono indipendenti dal contratto stesso, giacché in grado di sopravvivere alle relative vicende patologiche (indipendenza). Il presente lavoro ha per obiettivo di analizzare le clausole in rilievo: dapprima, cercando di ricostruirne la natura giuridica, nei termini di una categoria unitaria; dunque, indagando sui conseguenti corollari di disciplina.


Angelo Barba, Capacità del consumatore e funzionamento del mercato. Valutazione e divieto delle pratiche commerciali, Giappichelli, Torino, 2021.

La disciplina della concorrenza all’interno del mercato tutela e garantisce il diritto di iniziativa economica rimuovendo gli ostacoli che anche solo di fatto impediscono, restringono o falsano l’esistenza e la possibilità di funzionamento della capacità-potere di autodeterminazione (l’architettura della scelta).

La disciplina delle pratiche commerciali sleali regola, invece, il concreto funzionamento della capacità-potere di autodeterminazione economica della persona. Tutela e garantisce la capability esistente, ossia la capacitazione in concreto della persona ad assumere una consapevole decisione di natura commerciale, sia dal lato dell’offerta (impresa) che dal lato della domanda (consumo).


Francesco Castronovo, Violenza economica e annullamento del contratto, Esperienze straniere e diritto italiano, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2021.

Violenza e annullamento del contratto anticipano, sin dal titolo, la materia dei vizi della volontà e della qualificazione che essi proiettano sul contratto: l’invalidità. Ma la violenza economica, cioè a dire la minaccia agli interessi economici della vittima al fine di coartarne la volontà, non è un vizio tipico, dato che il codice civile in materia di contratti disciplina la violenza in generale; per contro, quello che genericamente può essere riferito al mondo degli affari e al mercato dalla prospettiva della coartazione che può viziare il contratto nel diritto vivente sembra incanalato e assorbito nella disciplina dell’abuso di dipendenza economica.

L’A. muove dalla considerazione che la coartazione economica non ha come presupposto necessario «una predominanza che origina da una situazione di dominio sul mercato o sull’impresa controparte (p. 4). Peraltro, un suggerimento che tenga conto di questa considerazione si trova nell’esperienza di common law, ove la doctrine of duress, «che tradizionalmente si applicava solamente in caso di minaccia di cagionare un danno fisico, è stata sviluppata fino a ricomprendere anche i casi di economic duress, così da invalidare il contratto quando il consenso sia stato ottenuto a mezzo di una minaccia agli interessi economici della vittima» (p. 5). In questo spazio si situa lo sforzo dell’A., teso ad appurare se il “vecchio” vizio della volontà, la violenza, possa essere modellato a dare forma giuridica a quella figura che allora diventa violenza economica.

Nella parte I della monografia, che dopo una introduzione indaga l’economic coercion nel diritto statunitense – i cui modelli contrattuali sono oramai diffusi anche nel nostro ordinamento – la strada verso il confronto tra la duress di common law e la violenza come vizio della volontà nel diritto italiano dei contratti passa attraverso un passaggio relativo al timore reverenziale. Questo, dall’art. 1437 c.c. sembra escluso dal catalogo delle cause di annullamento del contratto, e tuttavia la lettera della legge («il solo timore reverenziale») consente all’A. di aderire all’idea che anche il timore reverenziale, che sia circostanziato dal consapevole sfruttamento che l’altra parte ne faccia per ottenerne un accordo che altrimenti non si verificherebbe, possa ammontare a vizio della volontà, come tale in grado di provocare l’invalidità del contratto, analogamente a quanto si rileva in common law nella figura della undue influence, che nel tempo è stata affiancata alla duress con la funzione di coprire quei casi che la rigidità originaria di quest’ultima non consentiva di ascrivere all’area dei vizi invalidanti il contratto (p. 23 s.).

La parte II della monografia è intitolata a “La violenza economica e i rimedi del nostro ordinamento”. Il punto di partenza è l’idea che ridurre una varietà di problemi all’interno di un modello o di un rimedio per il fatto che si ritenga che esso sia l’unica risorsa disponibile costituisce una scorrettezza metodologica, onde si giustifica un’indagine che metta in luce una molteplicità di vie interpretative, meglio in grado di tenere conto delle differenze che li caratterizzano. Si introduce così l’idea che nei contratti la coazione economica non necessariamente debba essere ridotta entro la figura della dipendenza economica quando la loro morfologia suggerisce il richiamo di figure che, opportunamente rivedute, si manifestano più appropriate. Nella specie, il confronto con l’esperienza statunitense mette in evidenza che, mentre in quest’ultima «the law has evolved so as to permit relief of duress in a variety of situations», nell’ordinamento italiano «i rimedi contro i vizi della volontà… non hanno goduto di particolari attenzioni o di un’evoluzione, anche solo interpretativa, che seguisse i cambiamenti del mercato e le esigenze dei soggetti professionali che vi operano» (p. 67 s.). Anche l’“invenzione” della categoria dei “nuovi vizi” si rivela, in questo senso, insufficiente, nella misura in cui essi necessitano, per essere attivati, del significativo o eccessivo squilibrio (p. 70 s.).

Il rimedio unico al quale ci si è ridotti a fare riferimento è costituito dalla reazione all’abuso di dipendenza economica apprestata dall’art. 9 della l. 192/1998, che al c. 3 rende nullo il patto attraverso il quale l’abuso si realizza. L’A. prende atto che la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza hanno ritenuto applicabile la norma anche al di fuori del perimetro segnato dalla legge sulla subfornitura, ma non esclude che a tale esito si sia approdati anche per ovviare alla lacuna che si aprirebbe ove si ritenesse l’ordinamento privo di rimedi alla dipendenza economica che si verifichi al di fuori dei rapporti di subfornitura. Egli però, in alternativa a questa che è pure una forzatura interpretativa (p. 89) si chiede se sia vero che, al di fuori della reazione alla dipendenza economica tipicizzata dalla legge, l’ordinamento non sia in grado di fornire altri modelli di reazione. Tanto più che, come qua e là si rileva nello sviluppo del discorso, la violenza economica non veste necessariamente la forma della dipendenza economica disegnata dalla legge n. 192/1998.

Qui si innesta, anche sulla scia delle suggestioni provenienti da altri ordinamenti, l’analisi tesa a saggiare il modello di tutela offerto dal diritto privato generale nella reazione ai vizi della volontà e in particolare alla violenza. Viene alla luce così che i caratteri di quest’ultima, come li precisa l’art. 1435 c.c., e in particolare il timore di «un male ingiusto e notevole», ben può riconoscersi nella violenza economica, nella chiave di «un approccio più concentrato sui profili di formazione del contratto come li si ricava dalla economic duress»: prospettiva nella quale «prima e al di là dello stesso approfittamento e del susseguente squilibrio dello scambio, è la modalità prevaricatrice e coercitiva della negoziazione a risultare immediatamente meritevole di reazione da parte dell’ordinamento giuridico» (p. 77). Non per nulla già la dottrina, nell’intento di rendere plausibile la dilatazione dell’abuso di dipendenza economica che si può dire interna (ciò in cui esso propriamente consiste) ed esterna (l’espansione della figura al di là del confine di per sé assegnatole dalla legge, costituito dalla subfornitura) ha talora catalogato detta figura in una griglia allargata dei vizi della volontà (p. 91). E invece «il vizio della volontà propriamente inteso diviene … il rimedio contiguo e complementare al divieto di abuso, che giunge dove il secondo non può arrivare salvo snaturarsi, e viceversa» (p. 93).

Il cap. 3 della Parte II è specificamente dedicato all’analisi della violenza economica per verificarne la riconducibilità agli artt. 1434 e 1435, e in particolare a quest’ultimo per i profili dei caratteri della violenza. Questi vengono rinvenuti anzitutto in ciò: che «la vittima, al contrario che nelle situazioni di dipendenza economica, non è costretta a stipulare in quanto priva di alternative contrattuali, in quanto bisognosa di una prestazione che solamente la controparte può darle … Manca dunque (… non è richiesta ai fini della fattispecie) la sussistenza di una situazione-presupposto, che invece è necessaria perché sia configurabile l’abuso di dipendenza economica … Si tratta di una minaccia vera e propria che, in quanto (si traduce in un) vizio della volontà, di per sé non necessita di essere inquadrata in una situazione di abuso di dipendenza economica … e dunque sussiste indipendentemente dagli eventuali squilibri del negozio» (p. 96 s.). Analizzando la fattispecie dell’art. 1435, se ne mettono in luce gli elementi. Così, riguardo all’ingiustizia del male minacciato, bene viene precisato che essa non va intesa nel senso stretto e proprio dell’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c.: «si può … dire che il male ingiustamente minacciato, più che coincidere con il danno ingiusto e, secondo l’accezione classica, con la lesione di una situazione giuridica soggettiva, evochi il requisito dell’antigiuridicità della condotta» (p. 100). Quanto all’obiettivo della minaccia, la lettera della legge («temere di esporre sé o i suoi beni») «non pone limiti qualitativi»: in questo senso è significativo che la norma parli di «beni», cioè del patrimonio genericamente considerato: come si ricava dalla formula del code, che all’art. 1140 adopera la formula “sa fortune”. Ove il significato originario possa essere stato quello del «danno solo fisico», il concetto di “male ingiusto” di cui all’art. 1435 può essere “riorientato e ricalibrato” così da ricomprendervi anche gli interessi puramente economici della vittima, sfruttando «le virtù del diritto privato generale (come) capacità delle sue norme di calarsi, proprio per la loro generalità, nelle pieghe del particolare, consentendo che siano (anche) i valori della realtà attuale a determinare l’interpretazione della norma» (p. 107).

Nel cap. 4, nella consapevolezza che il fenomeno della violenza economica riguarda in larga misura imprese di forma societaria, si indaga l’immedesimazione organica per fondare l’idea che, come la manifestazione di volontà dei soggetti che personificano gli organi della persona giuridica vanno riferite a quest’ultima, così, in senso opposto, le minacce a quelli rende il contratto impugnabile dalla persona giuridica che rimane il centro di imputazione degli effetti riferiti alle condotte dei suoi organi. In particolare, quanto alla gravità della minaccia, è con riferimento al patrimonio della società che gli amministratori dovranno decidere circa la convenienza tra il male minacciato e il contratto coartato.

Il breve cap. 5 si occupa dei rapporti tra violenza e minaccia di far valere un diritto, ove l’apparente ossimoro viene risolto dall’art. 1438 nel senso che, ove l’esercizio del diritto venga minacciato in funzione del conseguimento di un vantaggio ingiusto, viene meno la funzione giustificatrice dell’azione che sia fondata sul diritto del suo autore. È importante la sottolineatura della norma nell’area dei rapporti economici, ove la posizione prevaricatrice di una parte può apparentemente ammantarsi della titolarità di un diritto che sembri assisterla.

La parte finale dell’indagine, nel cap. 6, conclude nel senso dell’annullabilità del contratto che sia conseguenza della violenza economica di una parte ai danni dell’altra. Le argomentazioni svolte lungo il percorso dell’indagine approdano all’idea che la morfologia particolare della violenza economica ne conferma la naturale ascrizione alla violenza come vizio della volontà, alla quale consegue l’annullabilità del contratto. In questo senso, conclude l’A., non è neanche necessario ipotizzare una fattispecie propria di violenza economica da giustapporre alla disciplina generale della violenza, una volta dimostrata la compatibilità con quest’ultima della fattispecie particolare oggetto dell’indagine.

Questa si conclude con un paragrafo – intitolato «la comparazione come strumento euristico» – in favore della comparazione, la quale ha mostrato di essere fonte essenziale di ispirazione dell’indagine e di conferma del volto nuovo che figure proprie del diritto privato generale sono capaci di assumere a seguito del confronto con gli altri ordinamenti.


Oriana Clarizia, Conformazione negoziale e clausole di “autosufficienza contrattuale”, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2021.

Il testo Conformazione negoziale e clausole di “autosufficienza contrattuale” – pubblicato nella Collana “Associazione dei Dottorati di Diritto Privato” – approfondisce, in chiave critica, i risvolti giuridici connessi alla globalizzazione del diritto, quale specchio dell’affermarsi di un mercato sempre più pervasivo, in grado di determinare il superamento del principio dell’esclusiva statualità del diritto in favore della preminenza del contratto nel disciplinare scambi che producono effetti a livello planetario.

L’evoluzione di siffatto processo rinviene una sua incisiva sintesi nell’acuta osservazione secondo la quale «la società globale è, in larga misura, una societas sine lege, ma non una societas sine iure» (F. Galgano, Le forme di regolazione dei mercati internazionali, in Aa.Vv., L’incidenza del diritto internazionale sul diritto civile, Atti del Convegno SISDiC, 25-27 marzo 2010, Napoli, 2011, p. 262). La realtà economica transnazionale influenza quella giuridica e viceversa, in una osmosi tra diritto ed economia con tratti peculiari, nuovi rispetto al passato. Il contratto da accordo con “forza di legge tra le parti”, finalizzato alla regolamentazione di interessi di matrice individuale, diviene, in virtù dell’impiego e della diffusione di modelli uniformi, uno strumento che assicura flessibilità e uniformità alla disciplina dei rapporti mercantili contraddistinti da una proiezione di effetti di là dai ristretti confini nazionali. Da un angolo visuale fortemente affine, può ben dirsi che si assiste al diffondersi di «norme create a colpi di contratto. Anche perché il contratto si fa prassi; la prassi genera l’uso; e l’uso crea la norma» (così V. Roppo, Il contratto, e le fonti del diritto, in Contr. impr., 2001, spec. p. 1085 s.).

A fronte di tale scenario e della transizione dal diritto positivo al diritto “globale”, il lavoro individua nella formazione consuetudinaria e in quella contrattuale della disciplina degli scambi internazionali due (diverse) figure sintomatiche del complesso e rinnovato rapporto tra diritto e mercato. L’attenzione si incentra, in particolare, sulla natura della lex mercatoria e – successivamente – sul ruolo ascrivibile a clausole contrattuali (c.d. merger clauses), ampiamente utilizzate nei contratti del commercio internazionale con un elevato grado di tipizzazione, tese ad escludere interventi integrativi e conformativi del giudice sul contratto. La direttiva che guida l’indagine intende mostrare come tali fenomeni, benché diversi sul piano fattuale e della formazione giuridica, forniscano risposta al medesimo problema – incentrato sulla funzione giuridica del mercato e sui rapporti tra potere privato, potere legislativo e potere economico – sia pure utilizzando criteri e modalità di funzionamento distinti.

Conformemente a tale duplice livello di analisi, il lavoro ripercorre l’evoluzione dei rapporti tra la lex mercatoria e il diritto commerciale negli scritti di Francesco Galgano e nelle vicende del noto volume Storia del diritto commerciale, pubblicato con tale titolo nel 1976 ed aggiornato, più volte, negli anni successivi, fino a mutare, nel 1993, il titolo in Lex mercatoriaStoria del diritto commerciale e infine, nel 2001, semplicemente in Lex mercatoria. Dopo aver riconosciuto a tale dottrina l’indiscusso merito di aver posto le fondamenta di un discorso metodologico relativamente a tematiche di crescente interesse ed attualità, si illustrano le ragioni che consentono di escludere sia l’autosufficienza applicativa della lex mercatoria sia la possibilità di elevarla al rango di un autonomo sistema normativo. Sovraintendono ad un corretto impiego della lex mercatoria il controllo di conformità all’ordine pubblico e quello di meritevolezza, entrambi intesi secondo un’accezione attuativa dei principi costitutivi dell’identità nazionale.

D’altro canto, la propensione all’autoregolamentazione favorisce il tentativo di governare la realtà transnazionale degli scambi non già con l’ausilio di norme consuetudinarie bensì in ragione della diffusione di clausole contrattuali tipizzate che non trovano rispondenza nell’ordito nazionale ma che risultano ammesse dai Principi Unidroit del commercio internazionale, dai Princìpi Pecl e dal Draft Common Frame of Reference. Il fine è circoscrivere il controllo del giudice sull’autonomia negoziale e precludere l’utilizzo, a fini ermeneutici e/o integrativi, del materiale (lettere di intenti, accordi oppure dichiarazioni, in forma scritta o verbale) antecedente o successivo alla conclusione del contratto (la nota teorizzazione del contratto “alieno” è ascrivibile a G. De Nova, Il contratto alieno, 2ed., Giappichelli, Torino, 2010; Id., Il contratto. Dal contratto atipico al contratto alieno, Cedam, Padova, 2011; Id., Contratto alieno, in Aa.Vv., in Enc. dir., I Tematici, Contratto, Giuffrè, 2021, p. 193 ss.).

Tali clausole sottendono una tensione tra le categorie di impronta civilistica e la relativa tradizione giuridica di appartenenza. Al fine di rappresentare in maniera più incisiva lo sforzo non agevole di armonizzazione di tali pattuizioni con le categorie civilistiche nazionali, l’analisi individua nella concezione della autonomia negoziale “conformata” il fondamento costitutivo dell’indagine. In tale direzione, l’evoluzione della problematica concernente la perdita della qualità negoziale della fattispecie modificata ex art. 1339 c.c. e la convergenza, oggi ampiamente ammessa, tra intervento legale sostitutivo e negozialità degli atti che ne derivano costituiscono la cifra rappresentativa del superamento dei radicati principi del volontarismo nella identificazione dell’autoregolamentazione negoziale. In particolare, le tensioni concettuali – esposte nel lavoro e – sorte intorno all’art. 1339 c.c., accedendo ad una ricostruzione fedele non più alla preminenza del dogma della volontà ma ad una solida sinergia tra contratto e mercato, appaiono esemplificative del mutato modo di intendere l’incidenza del diritto sull’autonomia privata.

Ciò chiarito, l’analisi prosegue nel ricostruire il grado di rilevanza delle merger clauses nel nostro ordinamento, avendo cura di coordinare la loro precipua funzione con le norme che disciplinano l’interpretazione (art. 1362 c.c.) e l’integrazione del contratto (artt. 1339, 1374 e 1375 c.c.). I confini dell’interferenza tra la merger clause e l’incidenza del contesto sulla ricostruzione della comune intenzione delle parti, ex art. 1362 c.c., appaiono di non difficile risoluzione in quanto il dato letterale rappresenta uno dei criteri di interpretazione ma non certo l’unico, sì che comportamenti, fatti o circostanze precedenti alla conclusione del contratto, anche se non formalizzati in atti scritti e non richiamati nella merger clause, possono avere una forte incidenza sul significato della comune intenzione dei contraenti e sul contenuto del contratto quale realtà oggettivamente intesa. Ne consegue che la clausola di autosufficienza non appare idonea ad impedire il ricorso all’indagine ex art. 1362, c. 2, c.c.

Maggiori difficoltà investono, invece, il rapporto tra tali clausole e le norme che disciplinano il procedimento integrativo del contratto, le quali potrebbero essere neutralizzate da pattuizioni aventi lo scopo di “proteggere” il contratto da interventi eteronomi del giudice. Invero, il problema, declinato in relazione alle distinte fonti di integrazione, assume toni e accenti più complessi con riferimento all’equità, posto che la inefficacia oppure, al contrario, la vis paralizzante di tali clausole dipendono dalla concezione di equità che si intende accogliere. Nella scelta tra l’accezione più tradizionale, quale criterio di giudizio in base al quale il giudice può attribuire importanza a circostanze altrimenti destinate a rimanere irrilevanti e quella – invalsa nell’ambito di attente riflessioni sul tema della giustizia contrattuale – che sottolinea l’acquisizione di una rinnovata funzione con compiti di riequilibrio delle prestazioni, il lavoro si inserisce nel solco di tali ultimi orientamenti, sebbene con talune opportune precisazioni concernenti le modalità operative e i limiti sottesi all’intervento sostitutivo del giudice per ripristinare la conformità del regolamento negoziale al sistema. Sì che, se da un lato – al fine di evitare l’intrusione del giudice a fronte di pattuizioni negoziali volutamente lasciate incomplete dalle parti – la clausola di completezza è idonea ad impedire il ricorso all’equità integrativa c.d. suppletiva, dall’altro, all’opposto, non può precludere l’operatività dell’equità correttiva, la quale interviene non già per determinare il contenuto del contratto o scrivere parti di esso mancanti bensì per favorirne la correzione in funzione attuativa dei princìpi costituzionali. In ultima analisi, le potenzialità di funzionamento della clausola di autosufficienza incontrano margini di operatività più ampi soltanto là ove l’autoregolamentazione delle parti riguardi diritti disponibili, non sacrifichi interessi costituzionalmente prevalenti e non necessiti di interventi correttivi.

Nella sua sistematica considerazione, l’indagine traccia le peculiarità e i limiti sottesi a due possibili, distinti, paradigmi di disciplina della realtà commerciale transnazionale: l’uno basato sul rapporto tra ordinamenti nazionali positivi ed ordinamenti spontanei, l’altro sulla circolazione e funzione tipizzante di clausole di matrice straniera, cogliendo nella ricerca di un ordinamento autonomo e nella autosufficienza della regola contrattuale imposta per via transnazionale un segno dell’evoluzione morfologica della globalizzazione economica e giuridica.


Francesco Delfini, Contratto e Contract. Predisposizione del contenuto e autonomia privata, Giappichelli, Torino, 2021.

Il volume raccoglie, nel testo in parte rielaborato ad uso delle studentesse e degli studenti del corso di diritto civile, una serie di scritti, di lezioni e seminari – nell’ideale dialogo tra l’esperienza giuridica domestica, le codificazioni di civil law americane (Argentina e Québec) e il common law statunitense – sulla autonomia privata nella negoziazione paritetica del contenuto del contratto, nonché sul controllo della predisposizione unilaterale del contenuto negoziale nei contratti standard per adesione.


Domenico Fauceglia, I mercati regolati e l’integrazione dei contratti di impresa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2021.

Il volume ha ad oggetto il tema dell’integrazione dei contratti con riguardo al recente fenomeno di liberalizzazione dei settori dei servizi di interesse economico generale che sino a qualche decennio fa erano sottoposti ad un monopolio statale.

Sin dagli anni Novanta dello scorso secolo, infatti, al fine di creare – quanto più possibile – uno stato di concorrenza nei settori in cui vengono erogati i servizi essenziali per il cittadino (servizi di trasporto, energetico, idrico e gas, di comunicazione elettronica e postale, ma anche i servizi bancari, assicurativi e finanziari), le Autorità indipendenti hanno svolto una duplice funzione: impedire all’ex monopolista (incumbent) di riprendere il sopravvento rispetto ai competitors; nonché – nell’ottica di una maggiore soddisfazione degli utenti – garantire il rispetto degli obblighi di servizio pubblico da parte di tutti gli operatori vigilati. In quest’ottica, siccome è impensabile regolare un settore di mercato senza poter in alcun modo sindacare i comportamenti di chi vi opera, le Autorità indipendenti sono spesso chiamate a controllare, correggere e limitare gli strumenti con i quali le imprese operano in un mercato: i contratti. Ne deriva che, nei settori dei servizi di interesse economico generale, lo strumento contrattuale è sì formato dalla volontà delle parti, ma è anche conformato dai regolamenti delle Autorità indipendenti.

Il lavoro monografico intende descrivere un istituto, quello dell’integrazione del contratto, che, nel contesto dei mercati regolati, risulta del tutto innovato.

A tal proposito, con riferimento all’integrazione ad opera dei regolamenti delle Autorità indipendenti, particolari sono le forme di integrazione diretta (ossia l’immediata integrazione del contratto ad opera dei provvedimenti delle Autorità indipendenti) e le forme di integrazione indiretta (o mediata) del contratto. Ebbene, in quest’ultima ipotesi il contratto non è direttamente integrato da un regolamento dell’Autorità indipendente, ma da una differente fonte. Particolarmente esemplare è il caso dell’integrazione del contratto di utenza telefonica, in cui il regolamento dell’AGCom non opera direttamente sul regolamento contrattuale, bensì regola il contenuto della Carta dei servizi che, a sua volta, integra il singolo contratto di utenza telefonica. Le due forme di integrazione, diretta e indiretta, operano sia nelle ipotesi di integrazione suppletiva che nelle ipotesi di integrazione cogente.

Nel mettere a fuoco i fenomeni di integrazione cogente del contratto, viene data particolare rilevanza al diverso operare delle norme aventi funzione meramente proibitiva e delle norme aventi funzione conformativa. Si distinguono così le norme che dettano una nullità del contratto e le norme che prevedono la sostituzione di singole clausole. Il volume esamina le norme aventi funzione proibitiva che vietano tout court un contratto che abbia certe caratteristiche. A tal proposito, alla p. 322 ss., vengono analizzate le ipotesi in cui i regolamenti delle Autorità indipendenti possano addirittura invalidare l’intero contratto (si veda tutti i casi relativi ai contratti di assicurazione sulla vita connessi al mutuo immobiliare o al credito al consumo, p. 332; ai contratti dei mercati finanziari, p. 338; ai contratti bancari, p. 344 e ai contratti pubblici, p. 353). Ebbene, per le ipotesi appena citate, nel caso in cui il contratto non sia conforme al regolamento dell’Autorità indipendente, non si pone alcun problema di integrazione perché, in verità, non esiste un valido ed efficace contratto da integrare.

Diverse, invece, sono quelle norme aventi funzione conformativa che non invalidano il contratto, bensì “correggono” il regolamento contrattuale. Con riferimento alle ipotesi di integrazione cogente, il volume si occupa non solo delle condizioni giuridiche del contratto (cioè i diritti e gli obblighi derivanti dal regolamento contrattuale), ma anche degli aspetti economici. Infatti, non di rado, le Autorità indipendenti, nell’ottica di una più generale politica di price cap, regolano anche le condizioni economiche contrattuali.

In conclusione, il volume descrive un istituto del tutto innovato (quello dell’integrazione contrattuale) e molto più complesso rispetto a quello disciplinato dal codice civile.

Il volume presenta un solido apparato bibliografico ed è ricco di riferimenti comparatistici e storici.


Giuseppe Garofalo, Profili di controllo e funzione di garanzia nei rapporti civili di credito. L’ingerenza creditoria nell’attività del debitore, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2021.

La monografia prende le mosse dalla constatazione secondo la quale è divenuta sempre più cogente l’esigenza per il creditore di rafforzare la garanzia di soddisfazione del credito e per il debitore di accedere al credito pur senza ricorrere all’immobilizzazione del proprio patrimonio. Le ragioni di ciò, ad avviso dell’A., sono da rintracciare: da un lato, nella «crisi» che stanno attraversando le forme tradizionali di garanzia, la cui rigidità si scontra con la flessibilità che impronta oggi i rapporti di mercato; dall’altro, nella difficoltà economica per coloro che necessitano di credito di ricorrere alle garanzie immobiliari.

Dopo alcuni cenni introduttivi sulla figura del controllo e delle precisazioni di metodo (capp. I e II), lo studio mette in luce come l’esigenza per il creditore di garanzie rafforzate e – di converso – per il debitore di forme giuridiche alternative sia perseguita facendo ricorso a strumenti di carattere convenzionale (c.d. covenant) la cui applicazione può sfociare in un’ingerenza da parte del creditore nell’attività svolta del debitore, ossia in una forma di controllo finalizzato a prevenire l’inadempimento, mediante la conformazione dell’autonomia del soggetto finanziato (cap. III). Tali clausole ricorrenti nella contrattazione bancaria, si evidenzia, pur non implicando un diritto di prelazione, appaiono connotate da una marcata funzione di garanzia, perseguita sovente mediante l’imposizione di vincoli all’autonomia contrattuale dell’impresa finanziata.

Prendendo le mosse dalla consapevolezza che qualsiasi controllo sull’attività debba trovare una giustificazione ordinamentale nel rispetto della libertà di iniziativa economica, l’autore si interroga sui limiti ordinamentali dell’ingerenza creditoria giungendo alla conclusione che qualsiasi forma di controllo debba soggiacere al giudizio di meritevolezza degli interessi perseguiti, tenuto conto dell’intera operazione economica realizzata e alle peculiarità del singolo rapporto. In questa direzione, si ritiene, altresì, che la verifica della compatibilità ordinamentale non possa essere attuata esclusivamente alla luce del principio di proporzionalità, ma si rende ad un tempo necessaria la valutazione sul piano qualitativo, secondo ragionevolezza, del sacrificio imposto al debitore finanziato.

La dimostrata esistenza di una tendenza negoziale, non già solamente a rafforzare la protezione del credito, quanto a indirizzare la gestione dell’attività allo scopo di prevenire l’inadempimento, conduce poi l’A. a sostenere la sussistenza di un dilatamento della classica concezione della responsabilità patrimoniale nonché uno sfilacciamento del rapporto che storicamente ha unito la garanzia e l’esistenza di un corrispondente bene materiale.

Da qui, l’osservazione secondo la quale l’interesse creditorio, oltre che sul bene, sta via via concentrandosi anche sul controllo della prestazione.

Quanto alla disciplina applicabile si evidenzia come, nell’ambito oggetto di studio, non possa escludersi a priori la rilevanza di norme appartenenti al campo delle garanzie, sol per via dell’attenuazione del nesso tra debito e garanzia stessa, come testimonia la trasversalità delle clausole esaminate, atte a svolgere una “funzione di garanzia”, per via dell’attribuzione al creditore di poteri di interazione, ingerenza o interferenza.

L’ultima parte (cap. IV) è dedicata ai recenti interventi legislativi in materia di procedure concorsuali e alle dinamiche di risanamento o ristrutturazione aziendale.

Lo studio di dette fattispecie conduce l’A. a confermare l’esistenza di una tendenza alla prevenzione dell’inadempimento mediante un’ingerenza creditoria la quale, a determinate condizioni, si ritiene possa trovare una giustificazione ordinamentale e fungere da strumento in grado di favorire una virtuosa collaborazione tra creditore e debitore. In tutti i casi si è sottolineata la necessità di sottoporre al giudizio di adeguatezza, proporzionalità e ragionevolezza qualunque forma di controllo con funzione di «garanzia».


Marisaria Maugeri, Smart Contracts e disciplina dei contratti – Smart Contracts and Contract Law, il Mulino, Bologna, 2021 (ed. it./ingl.)

La circolazione della ricchezza si avvale, oggi, anche delle nuove tecnologie.

Il giurista è chiamato a comprendere se e come le regole tradizionali siano in grado di disciplinare la nuova realtà.

L’A. analizza il fenomeno dei cosiddetti Smart Contracts. Il volume, oltre ad offrire una descrizione delle Distributed Ledger Technologies, delle Blockchains e degli Smart Contracts, si interroga sulla possibilità, o meno, di considerare gli Smart Contracts, o alcuni di essi, come contratti ex art. 1321 c.c.

Nello studio vengono analizzate alcune recenti discipline volte a regolare espressamente gli Smart Contracts e le discipline generali in tema di contratto applicabili ai nuovi fenomeni.

Si offrono esempi di attuale utilizzo degli Smart Contracts nel settore finanziario e in quello dell’energia.

Il testo è corredato dalla versione in inglese.


Lorenzo Mezzasoma, Il percorso della meritevolezza nel sovraindebitamento del consumatore, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2021.

Il volume si concentra su due questioni particolarmente rilevanti ed attuali in ambito consumeristico. Da una parte, si verifica la portata odierna del concetto di consumatore alla luce dei significativi interventi normativi nazionali e comunitari. Da altra parte, viene affrontato il problema della possibilità, per il consumatore, di avere una seconda chance, nel contesto della nuova portata della responsabilità del debitore. E, così, la riflessione si incentra sia sul comportamento del consumatore e, quindi, sulla sua meritevolezza come prevista dalla l. 3/2012, sia sulla rilevanza della omessa o non corretta valutazione del suo merito creditizio da parte del finanziatore.

La riforma del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza e gli interventi regolamentari dettati dal Covid-19 vengono analizzati nel rispetto dei principi ordinamentali.


Salvatore Monticelli (a cura di), I contratti dell’impresa (2 voll.), Giappichelli, Torino, 2021 [contributi di: S. Monticelli, G. Porcelli, A. di Biase, M. Galli, M. Gazzara, M. Graziano]

L’opera, oggi in due volumi, nasce da una felice intuizione di dare vita ad un insieme di monografie volte a svolgere un “corso di Istituzioni di diritto privato”, organizzato in più volumi, alcuni corrispondenti alle tradizionali partizioni del diritto privato, altri dedicati, invece, a temi più specialistici, e, perciò, connotati da una trattazione volta a coniugare la ricostruzione istituzionale delle fattispecie esaminate con mirati approfondimenti problematici, specialmente laddove emergenti dalle dinamiche del “teatro” giudiziale.

La finalità era ed è quella di accompagnare il lettore, ed in primis lo studente, ad un approccio con le molteplici tematiche affrontate, in un “viaggio” agile che muove dal piano istituzionale per poi andare oltre, lasciando alle spalle il quadro rassicurante dell’approccio istituzionale, per aprire squarci mirati sul caleidoscopio di problemi ed interessi che segnano il diritto civile, e, nel dibattito degli interpreti, trovano linfa e solo talvolta composizione. Sebbene mai definitiva.

Il cambio di prospettiva segna, perciò, un percorso graduale verso la complessità, di cui lo studente, futuro operatore del diritto, si mira a rendere consapevole, giacché solo da tale consapevolezza potrà trarre, se non sempre la soluzione certa dei problemi, quantomeno la percezione della loro esistenza.

È con l’auspicio di cogliere tale ambiziosa aspirazione che si è deciso di preferire ad una trattazione, di stampo tradizionale, sui “singoli contratti”, una disamina, più specialistica e circoscritta, volta a privilegiare lo studio dei contratti dell’impresa, nell’accezione, descrittiva più che dogmatica, dei contratti che vengono stipulati per l’attività dell’impresa. Terreno fecondo questo e crocevia della complessità, giacché alla composizione di interessi prevalentemente economici, che principalmente connota la contrattazione d’impresa, fa da sfondo e sempre più da contrappunto l’esigenza di riequilibrio degli stessi in funzione della tutela del mercato e della concorrenza, nonché della forte necessità di assicurare tutela effettiva al contraente che, nel mercato, è in una posizione di svantaggio economico e giuridico ed è sovente portatore di un bagaglio di interessi, anche non prettamente economici, la cui tutela però si impone in maniera prioritaria per il rilievo anche costituzionale che essi assumono.

Su questa falsariga nasce questa editio maior de “I contratti dell’impresa”, che si discosta da una disamina prettamente manualistica, anche senza abbandonarla del tutto, affrontando gli argomenti trattati senza trascurare l’approfondimento, in chiave problematica, delle questioni maggiormente dibattute e controverse, prescegliendo quale punto di osservazione privilegiato gli arresti della giurisprudenza, specie di legittimità, ed in particolare delle sezioni unite, per la funzione nomofilattica che arricchisce il loro operato.

Nei due volumi che compongono l’opera la trattazione si articola accorpando i vari contratti – tipici ed atipici – in distinte macrocategorie, scelte con il criterio, certamente non applicato in maniera rigorosa, della individuazione della funzione economica che prevalentemente li accomuna. E si ha cura, specie con riferimento ai contratti tipici, disciplinati nel codice civile, di sottolineare, qualora il modello contrattuale sia impiegato nell’attività d’impresa, quegli aspetti di essi che assumono peculiare rilevanza e criticità in funzione dell’esercizio di tale attività od impongono l’applicazione di una disciplina differenziata se ed in quanto vengano conclusi da imprenditori.

In tale prospettiva rivolta a privilegiare l’attività d’impresa trova giustificazione, ad esempio, il maggiore spazio riservato, nell’ambito del contratto di compravendita, alla trattazione relativa alla vendita di beni mobili, rispetto alla vendita immobiliare.

Nei volumi si ha, quindi, cura di focalizzare l’importanza delle discipline di settore e delle norme mirate alla regolazione del mercato o, più precisamente, di singoli, specifici mercati identificati in relazione alla tipologia dei beni o servizi che formano oggetto del contratto regolato; è quanto avviene, ad esempio, per i contratti bancari, retti da regole e principi propri, e che hanno valenza derogatoria rispetto alla omologa normazione contenuta nel codice civile; per i c.d. contratti turistici, ove la disciplina di settore ad essi dedicata pone finalmente fine alle annose querelles qualificatorie e di riconduzione ai tipi disciplinati dal codice civile; per i contratti del settore agroalimentare; per i contratti relativi all’attività di intermediazione finanziaria o di credito al consumo, attività che peculiarmente si connotano per essere “terreno fertile” di distorsioni ed abusi; per i contratti della pubblica amministrazione. Si analizzano contratti tipici tenendo conto dell’impatto sulla loro regolamentazione di discipline di carattere trasversale applicabili a più tipi contrattuali di cui integrano e per certi aspetti ridisegnano i paradigmi normativi contenuti nel codice civile. Si pensi alla disciplina della subfornitura nelle attività produttive, applicabile ad un gruppo di contratti quali la compravendita, la somministrazione, l’appalto, il contratto d’opera, integrandone la normativa di rispettivo riferimento ed in taluni casi dettando regole prevalenti rispetto ad essa. Si prendono in esame nuovi tipi contrattuali, si pensi alla recente disciplina del contratto di leasing e del rent to buy, e si dedica spazio alla trattazione ai contratti, non associativi, di collaborazione tra imprese, dedicando ad essi uno specifico capitolo nonché ulteriori ampi riferimenti nella sezione dedicata ai contratti per l’esecuzione di opere e servizi, ove la collaborazione tra imprese è, talvolta, anche legislativamente, un fattore imprescindibile. Un capitolo specifico, infine, è dedicato alle negoziazioni volte alla composizione della crisi d’impresa.

L’ambizione del lavoro non è certo quella di dare un’informazione esaustiva delle tante fattispecie prese in esame né tantomeno di esaurire tutte le questioni problematiche prospettabili, ma di offrire al lettore un quadro d’insieme, di agile lettura, per orientarsi, con spirito critico, nello studio dei contratti dell’impresa. Nella consapevolezza che trattasi di un insieme magmatico ed in continua crescita in ragione delle mutevoli esigenze dei mercati e degli scambi, motore fantasioso ed inarrestabile che impone, con “arroganza”, modelli e varianti sempre nuovi cui seguono, ma solo talvolta, gli interventi legislativi tipizzanti, spesso non esaustivi, lasciando, invece, in molti casi, agli operatori del diritto il difficile compito di inserimento ed omogeneizzazione di tali figure negoziali nel quadro complesso del nostro sistema normativo.


Gianfranco Orlando, Le nullità documentali. Dal neoformalismo al documentalismo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli.

1. L’indagine sulle nullità documentali ha ad oggetto lo studio di quelle peculiari fattispecie in cui la nullità del contratto, pur essendo causata da un vizio di “documentazione”, non viene inquadrata come una nullità strutturale di tipo formale ai sensi del c. 2 dell’art. 1418 c.c., da leggere in combinato disposto con il n. 4 dell’art. 1325 e l’art. 1350 c.c., bensì come un tipo di nullità essenzialmente diverso. Del resto, lo stesso art. 1325, n. 4, c.c. chiarisce che sì, la forma costituisce requisito ad substantiam quando «… risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità», ma ciò – a ben vedere – non autorizza ad affermare il reciproco : nulla esclude, cioè, la possibilità di pensare che alcune cause di nullità legate a vizi di “documentazione” vadano piuttosto ricondotte agli «altri casi stabiliti dalla legge» di cui al c. 3 dell’art. 1418 c.c. Il problema, allora, è comprendere quali siano questi “altri casi”.

Negli ultimi tempi, la Corte di Cassazione ne ha segnalati alcuni. Si veda, ad esempio, la sentenza delle Sezioni Unite n. 8230 del 22 marzo 2019 nella quale i giudici sono giunti alla conclusione di ascrivere le cc.dd. nullità urbanistiche – causate dal difetto delle “menzioni” prescritte dall’art. 46 del d.P.R. 380/2001 e dagli artt. 17 e 40 della l. 471985 – proprio tra le nullità testuali di cui al c. 3 dell’art. 1418 c.c. L’aspetto interessante della decisione è che tale qualificazione ha costituito l’esito di una (corposa) motivazione in cui si è dato implicitamente per presupposto che l’unica alternativa qualificatoria altrimenti possibile fosse la nullità virtuale del contratto per violazione di norma imperativa ai sensi del c. 1 dell’art. 1418 c.c. Particolarmente significativo appare, allora, il fatto che la Corte non si sia nemmeno astrattamente prefigurata la possibilità di ricondurre il difetto delle “menzioni urbanistiche” nell’ambito della nullità formale di cui al c. 2 dell’art. 1418 c.c.; eppure è proprio quello che avrebbe dovuto fare se avesse visto nel vizio “documentale” nient’altro che una sottospecie delle nullità formali. Se ciò non è avvenuto probabilmente è perché nella prassi giudiziale esiste una dimensione in cui la distanza tra vizi documentali e vizi formali è talmente “ovvia” da non porsi nemmeno.

Non meno significativa, nello stesso senso, è stata la sentenza delle Sezioni Unite n. 898 del 16 gennaio 2018 intervenuta sulla nota querelle dei contratti c.d. “monofirma”. A ben vedere, infatti, nonostante il percorso argomentativo della motivazione sia (apparentemente) orientato verso altre direzioni, anche questa sentenza ha rilevato la natura prettamente documentale della fattispecie esaminata. Affrontando il caso, infatti, le Sezioni Unite hanno chiarito che il contratto quadro di servizi d’investimento in cui risulta omessa la sottoscrizione dell’intermediario non ostacola il perfezionamento dell’accordo contrattuale, potendo essere questo desunto anche dai «…comportamenti concludenti dallo stesso tenuti». Il che mostra chiaramente quanto si intende dire: se, infatti, ci trovassimo di fronte ad un contratto formale, la sua conclusione sarebbe subordinata alla presenza delle sottoscrizioni di entrambe le parti (art. 2702 c.c.); ed è vieppiù evidente che la valutazione circa il valore “concludente” delle condotte di fatto adottate dalle parti non assumerebbe alcuna rilevanza. Eppure un obbligo di documentazione è testualmente prescritto dall’art. 23 TUF: come conciliare, dunque, le due cose? L’idea che si fa strada nell’indagine è che, al di là delle pur possibili ed utili valutazioni funzionali, sia già la struttura della fattispecie – beninteso: quale traduzione istituzionale di una specifica funzione perseguita dalla legge, visto che «… ogni come del diritto ha sempre un perché giuridicamente rilevante»  – ad escludere la necessità di rispettare i requisiti previsti dalla legge per la «forma scritta», e ciò perché l’obbligo di documentazione previsto dal citato art. 23 è qualcosa di essenzialmente diverso da una speciale prescrizione di forma ex art. 1350, c. 13, c.c. Detto altrimenti, non ci si trova di fronte ad un contratto formale, bensì ad un contratto – perfezionabile per fatti concludenti – per il quale la legge impone l’osservanza di un “obbligo documentale” (la cui violazione determina la sanzione della nullità) .

2. Il fenomeno delle nullità documentali è stato, in qualche modo, preconizzato e osservato dalla dottrina molto tempo prima delle due sentenze poc’anzi citate. Autorevole dottrina aveva già acutamente segnalato il crescente fenomeno per cui i “documenti” assumono il ruolo di «fonte diretta di efficacia giuridica» . E ben s’intende la specificità di quella indicazione: l’attenzione si focalizzava non sullo scrivere o il dire orale vincolati nel loro farsi, bensì proprio sul documento inteso come oggetto, come res signata in cui il linguaggio si corporalizza. Ma non tutti gli approcci – tra cui molti di quelli elaborati in riferimento alla c.d. conversione formale di cui all’art. 2701 c.c. – risultarono convincenti, tanto da indurre alcuni ad obiettare che il concetto di “nullità documentale” sia insostenibile dal punto di vista dogmatico . Il rilievo muoveva dall’osservazione per cui una invalidità negoziale non può mai colpire il documento: l’invalidità, infatti, è una categoria del giudizio giuridico riferibile al negozio, non ad una cosa, quale è, appunto, il documento: soltanto rispetto al primo è possibile esprimere quella valutazione del programma negoziale, preliminare rispetto alla realizzazione degli interessi, in cui normalmente si traduce il concetto di validità negoziale. E va nondimeno riconosciuto che, da questo primo punto di vista, la critica dogmatica della nozione di nullità documentale coglieva nel segno. Nonostante ciò, tuttavia, essa non può essere accolta. A ben vedere, infatti, il rilievo confonde il nomen usato per indicare una peculiare causa di nullità del contratto con la realtà rispetto alla quale l’invalidità viene predicata. Detto altrimenti, è certamente vero che la nullità è un giudizio riferibile al negozio e non al documento; ma l’espressione “nullità documentale” non sovverte questa corrispondenza, limitandosi esclusivamente ad indicare la peculiare origine di un vizio: altro è ciò che provoca la nullità (il “vizio del documento”, da cui l’aggettivo “documentale”), altro è ciò rispetto al quale tale nullità è riferita (il negozio).

Certo, è vero che il concetto di nullità documentale vive su un confine sottile: la riconduzione al c. 3 anziché al c. 2 dell’art. 1418 c.c. è resa ardua dal fatto che anche la nullità formale è – in una misura che, peraltro, è sempre stata oggetto di discussione – una nullità “testuale” (art. 1325, n. 4, c.c.). Ma per quanto sottile sia, non si tratta di un confine inesistente. La distanza appare, anzi, evidente ove si prendano in considerazione almeno due linee di demarcazione.

La prima è segnata dalla natura “normativa” del concetto di forma scritta ad essentiam: se, infatti, è vero che tale tipo di forma si manifesta solo laddove vengono integrati i requisiti dei precisi “modelli” previsti dalla legge – il riferimento è alla “scrittura privata” e all’“atto pubblico”  – ne consegue, per semplice specularità, che le nullità prescritte per vizi dello “scrivere” non riconducibili a quei due modelli, si configurano come delle perfette “candidate” ad una qualificazione in senso “documentale”. A tal proposito, può essere utile osservare che la lettura “normativa” della forma scritta ad substantiam non è contraddetta dall’ampia latitudine semantica che, anche in ambito giuridico, contraddistingue il termine “forma”, perché quel che interessa considerare non sono le (plurime) declinazioni della “forma in generale”, bensì (solo) lo speciale (e ben definito) tipo di forma (“scritta”) previsto dall’art. 1350 c.c. per la validità di determinati contratti .

La seconda linea di demarcazione è segnata dalla peculiare collocazione strutturale della nullità documentale rispetto a quella formale. Quest’ultima, infatti, essendo un requisito essenziale del contratto integra un elemento “intrinseco” della struttura del contratto (art. 1325, n. 4, c.c.); e la dimostrazione è data dall’intimo legame della forma con gli altri elementi essenziali del contratto: l’omessa documentazione degli stessi impedisce di riconoscere rilevanza giuridica all’atto. Le fattispecie di nullità documentale, invece, non sono poste a garanzia della documentazione dei requisiti essenziali del contratto; esse garantiscono, per lo più, la documentazione di fatti (come, ad esempio, la data di costruzione di un edificio) e atti (ad esempio, la consegna di un documento) esterni alla struttura intrinseca dell’atto. Il che, ovviamente, non esclude che la legge le configuri come elementi di validità. Niente impedisce alla legge di comminare la nullità anche per un vizio che investe elementi esterni alla fattispecie , facendo sì che divengano parte della sua struttura, pur rimanendo – secondo la disciplina generale – esterni. Così è nelle ipotesi di nullità documentale, nelle quali il completamento del ciclo formativo interno della fattispecie è, in qualche modo, presupposto della loro configurabilità. L’estrinsecità strutturale dell’obbligo di documentazione costituisce, dunque, un chiaro indice della natura documentale della nullità.

3. I riflessi sul piano sistematico e applicativo di questa concezione sono numerosi. Se, infatti, è vero che la documentazione di elementi di validità esterni all’accordo si distingue dalla documentazione della manifestazione formale della volontà richiesta ad essentiam, allora l’atto del documentare (esterno) non si connota come un onere formale (come accade quando di tratta di forma vincolata), ma assume piuttosto i connotati di un obbligo di fare . Ciò implica che, secondo la disciplina generale, l’inosservanza di questo obbligo non dovrebbe comportare la nullità del negozio, bensì l’obbligo risarcitorio conseguente, appunto, ad un inadempimento: ecco, dunque, mostrarsi la ragione per cui la nullità documentale è sempre una nullità testuale ex c. 3 dell’art. 1418 c.c.: tale rimedio non può che discendere da una esplicita previsione legislativa perché, per sua natura, l’elemento documentale esterno alla struttura intrinseca dell’atto si connota come un semplice “obbligo”.

Ciò assume un rilievo applicativo, ad esempio, nelle ipotesi in cui ci si trova di fronte a prescrizioni documentali imperfectae (ossia, sguarnite, dal legislatore, di un esplicito rimedio): contrariamente a quanto sovente sostenuto da alcune correnti “neoformaliste”, non sembra possibile estendere a queste fattispecie la nullità (di solito relativa) prevista per altre prescrizioni reputate “analoghe”; ad impedirlo è l’esistenza di una regola generale che preclude la stessa possibilità dell’applicazione analogica.

Si mostra, allora, l’utilità di mantenere una rigorosa distinzione di piani, stante la necessità di prevenire gli inganni indotti dal riflesso di proiettare la disciplina prevista per la forma scritta del contratto su ciò che con tale requisito, a ben vedere, ha poco in comune. È quel che accade, ad esempio, quando si esige la sottoscrizione di “entrambe” le parti – che è richiesta per la scrittura privata, ma non – per le fattispecie documentali (come quella dell’art. 23 TUF). Oppure si pensi, per fare un altro esempio, alla tentazione di estendere anche a queste fattispecie le regole probatorie previste in materia di forma (art. 2725 c.c.), che peraltro mal si adattano agli obblighi di consegna di documenti, per i quali sembra, invece, ragionevole un’ampia ammissibilità della prova testimoniale.

L’estrinsecità strutturale spiega, inoltre, perché talvolta le nullità documentali possono essere sanate “unilateralmente” (v. art 40, c. 4, T.U. edil.): se, infatti, ci trovassimo di fronte ad un requisito di forma (della volontà negoziale), sarebbe quantomeno necessaria la manifestazione della volontà di entrambe le parti; quando, invece, si tratta di una mera nullità documentale (che spesso riguardano dichiarazioni di scienza, non di volontà) la convalida è possibile anche se viene posta in essere da una sola parte. La stessa ragione è, inoltre, alla base della possibilità di sanatorie integrate per il tramite di attività diverse da quelle che caratterizzano la formazione del negozio in forma scritta .

Sovente, poi, all’estrinsecità strutturale corrisponde una estrinsecità “assiologica” . Gli obblighi documentali sono spesso diretti a soddisfare interessi “altri” rispetto alla formazione dei requisiti minimi del contratto. Si pensi al contrasto dell’abusivismo edilizio (sotteso alle nullità urbanistiche): assumendo la documentazione di elementi che assicurano la regolarità dell’edificazione a mezzo di evidenza dell’osservanza dell’interesse generale che si intende realizzare, l’attività documentale, imposta alla generalità dei contratti, trova nel documentalismo lo strumento indiretto di protezione dell’interesse generale. Siamo, insomma, in piena attuazione del principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost. : la prescrizione documentale si configura come una tecnica di coinvolgimento delle contrattazioni nello svolgimento di attività di interesse generale. Si sgonfiano, così, le accuse di eccessivo “formalismo” che si potrebbero in astratto muovere alle interpretazioni che legano la validità del contratto al rispetto di un requisito puramente “documentale” (e cioè a prescindere dal rispetto fattuale della normativa urbanistico-edilizia).

Da questa prospettiva si spiega, ad esempio, anche la ragione per cui la sanatoria del contratto non è riservata solo alla parte a vantaggio/protezione della quale il rimedio della nullità sarebbe posto, ma è perfezionabile da entrambe le parti: ciò accade perché ci troviamo di fronte all’obbligo di compiere un’attività a tutela di un interesse generale che ha poco a che vedere con il modo di esternazione della volontà negoziale.

Queste considerazioni valgono, in buona misura, anche per il settore della contrattazione di massa. Anche in questo settore, infatti, il vero equivoco «che tutto intorbida» nella lettura dei fenomeni consiste proprio nel riservare «l’appellativo di forma, cioè vestimentum requisito, a quel che forma negoziale ad substantiam actus non è» . L’avento del neoformalismo negoziale ha forse portato ad un cambiamento meno radicale di quel che si dice, ma sicuramente più incisivo di quel che si pensa: si discute molto dei problemi posti dalla forma, si riflette forse ancora troppo poco, invece, sul ruolo in essi occupato dai documenti, in particolare quali mezzo per contribuire alla correzione dei fallimenti del mercato. In questo senso, il documentalismo si offre, ad esempio, come chiave di lettura della trasparenza che informa il nuovo diritto dei contratti, spesso peraltro per via di discipline che sì contemplano, ma altresì trascendono l’interesse della parte debole del contratto in vista di un più generale interesse all’integrità del mercato. In questo contesto, la distanza dal formalismo è manifestata da numerosi elementi. Basti pensare che gli obblighi di documentazione ispirati dal principio di trasparenza esigono una rappresentazione “completa” dei contenuti del rapporto, anche in riferimento ad aspetti non essenziali. L’indicazione che proviene dalla legge è, dunque, di una tendenza quasi “opposta” a quella che normalmente presidia la “forma” del contratto, la quale è invece volta all’individuazione del “minimo” necessario perché si possa ritenere l’onere assolto . In quanto governate dal principio di trasparenza, dunque, le prescrizioni “documentali” non costituiscono tanto un elemento di specialità della forma scritta tradizionale, ma un qualcosa di essenzialmente diverso.

Sul piano metodologico, il punto di caduta dell’indagine indica la possibilità di far convivere – beninteso: in territori nettamente separati – due istanze, quali sono il funzionalismo e lo strutturalismo, altrimenti inconciliabili . In particolare, l’indagine indica la possibilità di adottare un approccio strutturalista per quanto riguarda i giudizi sulle nullità formali. Diverso è, invece, quanto è possibile dire per gli obblighi documentali estrinseci, potendo trovare ingresso, per tali fattispecie, valutazioni di carattere funzionale . Non è affatto casuale, infatti, che la giurisprudenza adotti quest’ultimo tipo di approccio in riferimento ad alcuni obblighi documentali, ispirandosi al principio assiologico-materiale di convenienza dell’effetto al fatto , ad esempio in riferimento ad “usi abusivi” della nullità . Occorre nondimeno sottolineare che questi tipi di valutazione sono normalmente estranei alle nullità “formali”: la loro struttura normativa, infatti, normalmente stride con giudizi di tipo funzionale, rispondendo piuttosto alla logica binaria (di chiara marca strutturalista) del c’è o non c’è: la forma ad substantiam – lo abbiamo visto – è requisito strutturale intrinseco, onde una volta che la legge la prevede come presupposto per poter riconoscere l’ingresso nel mondo giuridico di una realtà, occorre arrestarsi a constatare (la sua presenza o) la sua omissione, dato che ogni altra valutazione – sul raggiungimento dello scopo perseguito dalla legge con la sua prescrizione – sarebbe ultronea.

Infine, l’indagine può rivelarsi utile anche nelle valutazioni relative all’individuazione del giusto rimedio. Se, infatti, si accetta l’idea che la nullità non è la conseguenza “naturale” della violazione di un obbligo documentale, non può stupire il fatto che la prescrizione della nullità abbia avuto spesso conseguenze controfunzionali , o comunque meno incisive di quelle riconoscibili a rimedi sanzionatori di altra natura, come quelli risarcitori (eventualmente accompagnanti da sanzioni amministrative, come talvolta si è fatto , ma non sempre ). L’impressione, infatti, è che nessun obiettivo di “adeguatezza” possa essere in concreto raggiunto se non si passa, preliminarmente, dalla consapevolezza della natura degli strumenti utilizzati. La consapevolezza circa la natura documentale della fattispecie – e, in particolare, il suo essere normalmente posta a presidio di “attività” esterne all’atto – si rivela, dunque, come un passaggio imprescindibile per la configurazione di più adeguati apparati rimediali.


Alberto Mattia Serafin, La presupposizione. Genesi storica, categorizzazione differenziale e olismo contrattuale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2021.

La monografia di Alberto Mattia Serafin – dedicata alla presupposizione – si articola in tre capitoli, i quali sviluppano le locuzioni che compaiono nel sottotitolo del libro.

Il primo, invero, è dichiaratamente vòlto ad indagare la «genesi storica» dell’istituto, così contrassegnando un metodo, di cui l’A. si sarebbe servito anche in uno studio monografico successivo (si v. Id., Profili evolutivi del formalismo testamentario. Dalla tradizione romanistica al particolarismo medievale, Giappichelli, 2022).

Il secondo, invece, fa leva su un argomentare di tipo logico e, in particolare, su un procedimento c.d. per differentiam, al fine di valutare se, alla base del meccanismo presuppositivo, ripòsino istanze in grado di trovare soddisfazione, o meno, per mezzo delle altre figure «codificate».

Il terzo, infine, si serve del criterio di ragionevolezza e del principio di proporzionalità, per avanzare così la proposta ricostruttiva compiuta.

Nelle pagine introduttive del libro (p. 7 ss.), l’A. opera una netta professione di metodo, che rappresenta il proprium dell’intera opera: sarebbe illusorio cogliere il mistero della presupposizione riassorbendo tale figura entro quelle già previste, perché – e qui si avverte una prima linea di dissenso, rispetto al modo con cui il quesito è stato tradizionalmente impostato – sarebbe ingenuo, quando non contraddittorio, ricondurre agli istituti positivizzati un ìmpeto sorto proprio per colmare le relative manchevolezze. 

Questa prospettiva euristica caratterizza anche il primo capitolo, ove l’A. conforta l’assunto di partenza confrontandosi con le pagine di chi – per unanime consenso – è identificato come il «creatore» della Voraussetzung, ossia Bernhard Windscheid. Già in queste considerazioni introduttive (p. 26 ss.), l’A. avverte l’illusorietà del tentativo di configurare la presupposizione alla stregua di una «condizione non isvolta» (Unentwickelte), ricordando poi come lo stesso Windscheid avesse attribuito a tale definizione una valenza meramente «illustrativa», sicché in nessuno caso si sarebbe potuta dare piena identità tra la fattispecie presuppositiva e quella condizionale.

Operando una «rilettura» di alcuni passi delle Pandette, l’A. smentisce la tradizionale tesi, secondo cui la Voraussetzung rappresenterebbe un’esasperazione del «volontarismo», caratterizzante il negozio giuridico, per come allora inteso (Rechtsfeschäft); al contrario, essa rifletterebbe un’ideologia tutt’altro che conforme al Willensdogma, perché si farebbe espressione di una pioneristica spinta di giustizia contrattuale (Vertragsgerechtigkeit).

Nel trattare della «recezione» in Italia della figura (p. 40 ss.), l’A. trova conferma dell’ipotesi di fondo, affacciata nelle pagine di premessa: la dottrina e la giurisprudenza ante 1942 sembravano già rinunciare, infatti, a confrontarsi in modo consapevole e soddisfacente con il problema della presupposizione. Per un canto, infatti, si avvedevano di come essa si fondasse su un’ideale di giustizia e di naturalis aequitas (così, in particolare, Gino Segrè), ma per l’altro non si prodigavano nell’apprestare formanti normativi (come le clausole generali o i princìpi) disposti ad accogliere quelle necessità, facendo persistente affidamento sulla circolarità delle regole di tipo condizionale.

Questa insoddisfazione ricompare nell’incipit del secondo capitolo, ove l’A. abbandona il metodo propriamente storico, per iniziare un percorso di «categorizzazione differenziale»: sintagma, questo, con cui si designa l’individuazione della reale consistenza del problema presuppositivo, verificando analogie e differenze rispetto ad altre figure, già trovanti approdo nello ius positum. Le somiglianze con altri istituti, invero, consentono all’A. di costruire progressivamente la fisionomia della presupposizione; le diversità, allo stesso tempo, gli permettono di marcarne le peculiarità, verificando se il passaggio in questo «congegno distillatore» (così a p. 76) lasci sopravvivere, o meno, un contenuto meritevole di tutela e disciplina.

Così, ad esempio, con riguardo alla condizione – da un fitto dialogo con le classiche pagine della voce enciclopedica di Pietro Rescigno – si rileva (p. 77 ss.) che la situazione posta a fondamento del regolamento, «presente» proprio perché «pre-esistente» («futuro» essendo, viceversa, il solo avvenimento in grado d’alterarla), non è «incerta», bensì «certa», quanto meno nella rappresentazione programmatica divisata dalle parti. Ancóra, con riguardo all’errore (p. 93 ss.), si riscontra l’assenza di quella «falsa rappresentazione della realtà», che come noto costituisce il tratto identificativo di tale vizio del consenso: il «giudizio di falsità» – e qui l’A. riprende un’efficace dizione di Pietro Barcellona – può infatti essere compiuto solo una volta che si verifichino quegli avvenimenti, che siano in grado di sconvolgere l’assetto presupposto; in tal caso, però, sarebbe più corretto focalizzare l’attenzione su questi, come avviene nei fenomeni risolutori, piuttosto che su una fittizia permanenza dello status quo ante. Inoltre, nel trattare del rapporto con la «causa» (p. 106 ss.) e con i «motivi» (p. 160 ss.), l’A. aderisce all’impostazione «funzionale» e «assiologica» del dispositivo causale, prospettando l’estensione del giudizio di meritevolezza alla circostanza-motivo posta alla base del negozio: nel caso in cui questo test non dia esito positivo, infatti, non sarebbe neppure necessario interrogarsi sugli eventi in grado di frustare la Voraussetzung. Eventi, che – passando alla risoluzione per eccessiva onerosità (p. 173 ss.) – non sempre sono «straordinari» e/o «imprevedibili», così chiudendosi le vie rimediali – «eliminative» e, in seconda battuta, «conservative» – prospettate dagli artt. 1467 ss. c.c. Eventi, infine, per apprezzare la portata dei quali non sarebbe neppure sufficiente – è il noto tentativo di Mario Bessone, con cui l’A. si confronta alle p. 203 ss. – la buona fede, giacché tale clausola generale non si presta oggi ad essere letta disgiuntamente dagli altri princìpi identificativi del sistema.

Si approda così al terzo capitolo, ove l’A. riprende una risalente intuizione di Luigi Mengoni, distinguendo – sono parole dell’illustre giurista, richiamate a p. 223 – «a) “il problema di circoscrivere la sfera delle circostanze che possono essere considerate come «base» di un determinato contratto”; b) “il problema di individuare gli effetti giuridici ricollegati alla mancanza, originaria o successiva, di tali circostanze”». Entrambi, ad avviso dell’A., si prestano tuttavia oggi ad essere indagati integrando il criterio «quantitativo» della proporzionalità con quello «qualitativo» della ragionevolezza. Sicché – e questo è l’iter procedimentale prospettato dall’A. a p. 287 – «[…] una prima incrinatura del principio di proporzionalità, attestata dalla mancata corresponsione d’un «sovrapprezzo», tale da remunerare un’utilità estranea all’economia «normale» dell’affare, lascia dischiudere un sindacato più ampio sull’atto d’autonomia rispetto a quello ordinariamente praticato, sì da valutare la «meritevolezza» dell’assetto «presupposto» e, in caso d’esito positivo (cui contribuirà la circostanza che le parti, avuto riguardo al «contesto situazionale», si siano comportate secondo buona fede), l’ulteriore attitudine di quello a farsi turbare da un evento «sopravvenuto», l’accertamento della natura – (stra)ordinaria e/o (im)prevedibile – del quale non dovrà determinare l’automatica e incondizionata declinazione, in senso «ablativo» o «manutentivo», del rimedio eventualmente accordato, stanti i controlli di ragionevolezza e proporzionalità che investono selettivamente il riferito profilo rimediale». Infine, il tema della c.d. crisi della fattispecie è utilizzato dall’A. per giustificare l’applicazione di regole mutuate dai meccanismi condizionale e risolutivo, come gli artt. 1356-1359 e 1467, c. 2, 1469 c.c.


Francesco Venosta, “Contatto sociale” e affidamento, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2021.

Il volume dapprima ripercorre l’evoluzione e l’inquadramento della nozione di “contatto sociale” nell’ordinamento italiano, soffermandosi sulle diverse teorie dogmatiche entro le quali essa è stata inserito dalla dottrina italiana e il suo utilizzo nella giurisprudenza per la delineazione della responsabilità del medico.

Questo permette all’A. di occuparsi della tutela dell’affidamento che deriva dal contatto sociale, per poi dare una definizione di esso come esecuzione di una prestazione non dovuta e dei relativi doveri di protezione, corredandola di esempi normativi e giurisprudenziali.


Giuseppe Vettori, Contratto e rimedi. Verso una società sostenibile, Wolters Kluwer/ Cedam, Milano, 2021 (4a ed.).

Questa quarta edizione tiene conto di quanto il mondo sia cambiato dal 2017, anno della pubblicazione della terza edizione, e ancor più dalla prima edizione di questo Manuale, pensato ponendo al centro la pluralità delle fonti del contratto e un metodo “rimediale”, volto alla ricerca della tutela più adeguata dei diritti e dei doveri delle parti.

Dal 2015 in poi, in piena crisi economica e sociale, voci autorevolissime hanno certificato la fine dell’ideologia sulla priorità del mercato.

L’Agenda 2030 dell’ONU, numerosi provvedimenti dell’Unione europea e le encicliche del papa hanno indotto ad invertire la rotta con alcuni punti fermi.

Uno sviluppo sostenibile orientato da scelte responsabili di consumo, di risparmio e di investimento ad ogni livello, individuale, pubblico e collettivo.

Dal 2019, la pandemia e molte disposizioni, nazionali ed europee, hanno inciso e incideranno profondamente sulla disciplina del contratto e non solo.

Questo volume nasce quindi dalla necessità di avviare una riflessione per fissare nuovi principi e nuovi orientamenti.


Giorgia Vulpiani, Unità, frammentazione e sanabilità della nullità del contratto, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2021.

Il volume Unità, frammentazione e sanabilità della nullità del contratto si incentra su particolari questioni emerse recentemente in tema di nullità del contratto, muovendo dall’analisi dei caratteri tradizionalmente ritenuti fondamentali della nullità al fine di verificare la permanenza o meno di una concezione unitaria dell’istituto. Il dibattito sulla nullità del contratto ha, infatti, subìto negli ultimi anni un deciso sviluppo in ragione dell’evoluzione legislativa e giurisprudenziale, tanto che parte della dottrina ha ipotizzato il superamento della tradizionale categoria unitaria della nullità, ormai frammentata e destrutturata. Tale osservazione muove dall’assunto secondo cui la disciplina delle diverse e “nuove” nullità comporterebbe il dissolvimento di quello che da sempre viene considerato lo “statuto generale” della nullità. Statuto generale che la disegna come assoluta, a tutela di interessi generali, rilevabile d’ufficio e insanabile salvo diversa disposizione di legge. Si discostano da queste caratteristiche le nullità di protezione, ponendo questioni soprattutto in punto di rilevabilità e convalidabilità. Nell’ambito delle nullità di protezione, problematiche particolari emergono dall’analisi di alcune fattispecie giurisprudenziali relative alla connessione forma protettiva-validità nei contratti del mercato finanziario, come il caso del c.d. contratto monofirma, ossia il contratto-quadro di investimento firmato solo dal cliente e non anche dall’intermediario; questione dalla quale deriva quella dell’ammissibilità dell’uso selettivo della nullità di protezione. Altre figure di nullità di particolare interesse sono la nullità derivata, che ricorre ove l’invalidità si propaghi da un contratto ad un altro in sé valido, ma avvinto al primo da un collegamento negoziale, e la nullità sopravvenuta, che colpisce il negozio in momento successivo alla sua conclusione. Contribuiscono, inoltre, a tale quadro frastagliato le ipotesi di recupero del contratto nullo. Si pensi ad esempio alla sanabilità delle nullità urbanistiche, alla sanabilità della nullità per omessa registrazione del contratto di locazione e del patto occulto di maggiorazione del canone ad essa connesso, alla rimozione della nullità/inefficacia attraverso l’affrancazione nell’ambito dell’edilizia residenziale pubblica. Queste ipotesi pongono l’interrogativo se possa il dogma dell’insanabilità essere definitivamente messo da parte, come già prospettato da autorevole dottrina, in virtù di una preminente considerazione degli interessi che vengono in rilievo.

L’indagine sull’attuale configurarsi delle nullità contrattuali nel nostro ordinamento non può che muovere da un’analisi storico-comparatistica dell’istituto, utile per illuminarne i caratteri e l’evoluzione, e dall’esame delle diverse ricostruzioni dottrinali della nullità stessa. Il primo capitolo del volume si apre, infatti, con l’inquadramento della categoria generale dell’invalidità e, nel solco di quella dottrina che rivaluta la comparazione giuridica diacronica, si dà conto dell’evoluzione dell’invalidità e della nullità contrattuale a partire dal diritto romano, che non conosceva la categoria generale dell’invalidità. Nelle fonti romane si riscontrano numerosissime espressioni che venivano utilizzate per riferirsi alla mancata produzione o al venir meno degli effetti giuridici previsti per determinate fattispecie (tra le quali nihil agerenon consisterenullum effectumnullas vires haberenon esse). Ad esempio, il termine nullus stava ad indicare l’inesistenza giuridica del negozio; concetto, quest’ultimo, che svolgeva la funzione pratica di escludere dalla sfera del giuridicamente rilevante tutto ciò che era difforme dallo ius civile: l’atto inesistente era l’atto che si discostava dal modello. Tali concetti sono stati successivamente elaborati dalla dottrina pandettistica, secondo la quale l’invalidità, limitata all’ambito del negozio giuridico, diventa una categoria concettuale a sé. All’interno del primo capitolo ci si sofferma poi sulle previsioni in tema di invalidità nel codice del 1865, fortemente ispirato al Code Napoléon. Il codice del 1985 non conteneva norme generali sulla nullità, ma poche confuse disposizioni che disciplinavano specifiche ipotesi di invalidità. La dottrina dell’epoca, rifacendosi a quella francese, soleva inoltre distinguere tra nullité absolue nullité relative, incentrando la distinzione dapprima sulla gravità del vizio e successivamente sulla rilevanza dell’interesse tutelato. Il discrimen restava tuttavia sfumato e vi era molta incertezza su quali fossero le cause di nullità assoluta/inesistenza e le cause di nullità relativa. Il codice del 1942 ha poi proceduto ad una sistematizzazione delle invalidità contrattuali, ispirandosi più al codice civile tedesco che a quello francese. Non vi è più un’unica categoria di nullità usata indistintamente per indicare fenomeni diversi, come accadeva nel Code Napoléon, ma si disciplinano distintamente i due istituti della nullità e dell’annullabilità, così come previsto all’interno del Bürgerliches Gesetzbuch. Si procede poi all’analisi dei confini della nullità, stretta tra l’inesistenza e l’annullabilità, e ci si sofferma, in chiave comparatistica, anche sull’evoluzione della nullità nell’ordinamento francese, traendo spunti di riflessione dalle novità in tema di invalidità introdotte dall’ordonnance n. 131/2016, con particolare riguardo all’inserimento nel code civil di una definizione di nullité absolue e relative incentrata sul rilievo dell’interesse tutelato, della nullité conventionnelle e dell’action interrogatoire ayant pour objet la nullité e alla rielaborazione dei vizi di nullité relative (con l’introduzione della violence par abus d’un état de dépendance) e dei requisiti essenziali del contratto, con l’eliminazione dei concetti di cause e objet, confluiti nel generico contenu du contrat.

Nel secondo capitolo, al fine di dare una visione più ampia sull’attuale atteggiarsi della nullità del contratto nel nostro ordinamento, il volume si sofferma su particolari figure di nullità, a partire dalla nullità virtuale e da particolari ipotesi di nullità per difetto di causa affrontate in recenti pronunce giudiziali in tema di contratti derivati e clausole claims made, ormai considerate tipicheSuccessivamente, l’indagine si incentra sulle ipotesi di nullità di protezione, poste, com’è noto, a tutela della parte in situazione di debolezza. Queste, tuttavia, non configurano una vera e propria categoria unitaria, altra rispetto a quella della nullità generale, anche in considerazione del fatto che non presentano uno statuto uniforme. Presentano, però, un tratto comune sotto il profilo assiologico-funzionale, consistente nel fatto che la norma che prevede la nullità regola l’esercizio dell’autonomia privata con la finalità di garantire che la programmazione contrattuale sia equilibrata nella sua genesi e nei suoi contenuti. Il tipico meccanismo della nullità viene così modulato per perseguire l’intento di tutela della parte debole che viene attuato non necessariamente attraverso l’interdizione del contratto, ma con la sua rimodulazione, al fine di garantire l’equo contemperamento degli interessi. In particolare, si analizzano la nullità del consumatore, la nullità per abuso di dipendenza economica, le nullità del TUB e del TUF, soffermandosi sulle questioni del contratto monofirma e delle nullità selettive. Tale ultima fattispecie sollecita, peraltro, una riflessione sulla c.d. nullità derivata riguardo al rapporto contratto quadro-contratti in esecuzione, ai contratti collegati e ai contratti a valle di intese lesive della concorrenza. L’indagine prosegue soffermandosi sulle particolari figure della nullità sospesa e della nullità sopravvenuta, analizzata attraverso le fattispecie della fideiussione omnibus e dell’usura sopravvenuta e messa in relazione con l’istituto della caducité du contrat dell’ordinamento francese. Il secondo capitolo si conclude con l’esame delle problematiche relative ai profili di invalidità degli smart contract, questione ad oggi ancora scarsamente indagata e che desta diverse perplessità in ragione della singolarità di tali negozi.

Il terzo capitolo, dando rilievo alle correlazioni tra diritto sostanziale e processo, angolo visuale necessario per l’effettiva comprensione dell’atteggiarsi della nullità nel nostro ordinamento, indaga i riflessi della presunta frammentazione della nullità sull’azione, concentrandosi in particolare sulla legittimazione e l’interesse ad agire, sulla rilevabilità d’ufficio, nonché sul giudicato di nullità. In particolare, attraverso l’esame dei profili processualcivilistici, si riscontra un nucleo centrale comune alle varie figure di nullità nella tutela dell’interesse generale, rinvenibile anche nelle nullità di protezione, e nella rilevabilità d’ufficio, estesa a tutte le ipotesi di nullità, comprese quelle di protezione – operando in questo caso l’opportuno distinguo tra rilievo (necessario) e dichiarazione della nullità (in considerazione dell’interesse della parte) –, in virtù dei preminenti interessi sottesi alla nullità, che conserva, pertanto, la sua unità da un punto di vista funzionale.

Il volume si conclude con il quarto capitolo che si sofferma su un altro carattere tradizionalmente individuato come essenziale della più grave forma di patologia negoziale: l’insanabilità del contratto nullo; dogma che, in considerazione dell’attuale atteggiarsi della nullità, vacilla. L’analisi muove dalle principali ipotesi di recupero del contratto nullo rinvenibili nell’ordinamento (conferma ed esecuzione volontaria, recupero degli effetti del contratto di lavoro nullo, sanabilità delle delibere assembleari nulle, pubblicità sanante, nullità e recupero nel codice dei beni culturali e del paesaggio, sanatoria delle nullità urbanistiche), esaminando inoltre fattispecie particolari emerse in recenti pronunce giurisprudenziali (registrazione sanante del contratto di locazione) e la questione della convalida delle nullità di protezione. Nell’ambito dell’indagine, si sottopone a vaglio critico l’interpretazione restrittiva dell’art. 1423 c.c., aderendo alla dottrina che ne valorizza una lettura in chiave assiologico-sistematica, affermando la possibilità di convalida anche in assenza di espressa disposizione normativa ove siano comunque soddisfatti la volontà del legislatore e l’interesse concretamente tutelato, a ciò soccorrendo i principi di ragionevolezza e sussidiarietà. La ricaduta applicativa di questa impostazione viene in rilievo soprattutto con riguardo a particolari meccanismi volti al recupero dell’atto invalido nell’ambito dell’edilizia PEEP, come la c.d. norma salva-venditori (inserita dal d.l. 119/2018 e modificata dal d.l. 77/2021) di cui si propone, valutatane l’identità di ratio ed interessi sottesi, un’estensione in via analogica anche alle ipotesi degli alloggi ceduti dagli Ater.

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